La stortura è già nell’appellativo che ormai è di larghissimo uso e consumo: il termine borgo, in origine, indicava in generale un luogo fortificato o comunque un aggregato di case «nel suburbio o nello spazio – riporta l’enciclopedia Treccani – tra una più antica e angusta cerchia di mura e una nuova difesa (mura o fossato)». Ma anche rifacendosi a una definizione fornita dal Ministero della Cultura nel 2017 nell’apposita direttiva per “l’anno dei Borghi d’Italia”, vi rientrerebbero i Comuni «con al massimo 5.000 abitanti caratterizzati da un prezioso patrimonio culturale». Già basterebbe questa pur generica indicazione a fare dei distinguo e a chiamare alcuni luoghi con il loro nome, cioè paesi, il che rimanderebbe non solo al luogo fisico ma soprattutto alla comunità che lo abita. Ma il paradosso dei “borghi” non è certamente da circoscrivere a questione da feticisti del linguaggio. Quella dei piccoli Comuni delle aree interne è infatti di una realtà spesso drammatica che a fronte di anni di strategie nazionali, “spot” istituzionali e retorica elettorale deve piuttosto fare i conti con la mancanza di servizi pubblici essenziali. Senza i quali, pur invocando all’infinito il turismo – di nicchia, esperienziale, religioso, sportivo, di mare, di montagna o in qualsiasi altra declinazione – come manna per risollevare la fragile economia di queste comunità, la vita in questi luoghi sarà sempre meno vivibile già per chi ci è nato e cresciuto, figurarsi per chi ci arriva da visitatore. L’ultima proposta che difficilmente invertirà questa triste parabola l’ha presentata, di recente, il consigliere regionale del M5S Davide Tavernise: una legge che preveda «l’istituzione della Rete dei Borghi della Calabria».