Professori pagati più in Lombardia rispetto ai loro colleghi calabresi. Uffici scolastici non più legati al Ministero dell'Istruzione ma alle direttive delle singole Regioni, maggiori fondi alle realtà private e a discapito di quelle pubbliche, programmi che variano in base alle latitudini in cui si ritrova. Sono i possibili effetti (nefasti) dell'Autonomia differenziata sul mondo scolastico. E se ancora si attende di conoscere l'impatto concreto della riforma, sono diversi gli attori in campo che prefigurano addirittura un ritorno alle gabbie salariali e la crescita del divario tra gli studenti di diversi territori.
L'Istruzione, come è ormai noto, è una delle materie gestite a metà tra Stato e Regioni per la quale la legge Calderoli rimanda alla definizione dei Livelli essenziali delle prestazioni (Lep). In questo momento la principale incognita è legata al finanziamento dei Lep, passaggio necessario per consentire alle Regioni di adeguarsi ai servizi minimi da garantire su tutto il territorio nazionale.
Da Roma si continua a predicare calma, non è un caso che il ministro Giuseppe Valditara ripeta senza soluzione di continuità che i Lep della scuola rimarranno sempre in capo allo Stato e saranno uguali nel Paese. A occuparsi di tutto dovrebbe essere un tavolo di esperti in un lasso di tempo, salvo ulteriori complicaazioni, stimato in 2 anni.
L'interrogativo, però, è cosa faranno quei territori che più di altri spingono sul terreno dell'Autonomia. Il riferimento è a Veneto e Lombardia. Nelle pre-intese firmate in passato, come ricordato qualche giorno fa da la Repubblica, è prevista l'attribuzione della «potestà legislativa in materia di norme generali sull'istruzione». E dunque è concreto il rischio della delega di alcune funzioni senza attendere la cristalizzazione dei Lep.
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