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Wanda Ferro: «Uno Stato credibile può battere la ’ndrangheta»

Wanda Ferro

Prima l’inaugurazione della nuova sede dell’Anbsc a Reggio, poi quella della Caserma dei Carabinieri a Santo Stefano d’Aspromonte.

On. Ferro, lo Stato rafforza la sua presenza e dà un segnale importante in Calabria.

«La presenza del ministro Piantedosi a Reggio Calabria per due volte in pochi giorni dimostra ancora una volta l’attenzione del governo Meloni nei confronti della Calabria, ma anche un grande impegno sull’attività diretta al riutilizzo a fini sociali e istituzionali dei beni confiscati alle mafie, attività alla quale ho l’onore di essere stata delegata, e che rappresenta un momento fondamentale nella più ampia strategia di contrasto alla criminalità organizzata. In una terra in cui è necessario dimostrare ogni giorno la presenza anche fisica dello Stato, è evidente l’importanza di trasformare quegli edifici costruiti con i proventi delle attività illecite da don Rocco Musolino nella nuova sede dell’Agenzia nazionale dei beni confiscati e in una caserma dell’Arma dei Carabinieri. Prima c’era stata la caserma di Africo e presto ci sarà quella di Limbadi, tutti luoghi significativi, così come in Sicilia lo sono Castelvetrano e Mazara del Vallo, dove abbiamo assegnato i beni sottratti a persone vicine a Matteo Messina Denaro e Totò Riina. La mafia vive di simboli, e noi mostriamo a tutti che siamo capaci di trasformare la rappresentazione del loro potere e della loro ricchezza in presidi delle Forze dell’ordine o realtà al servizio dei più deboli, quindi in luoghi di rinascita e di riscatto. Dal nostro insediamento abbiamo lavorato intensamente per segnare un salto di qualità nella gestione dei beni confiscati, potenziando e rendendo più efficiente l’agenzia, attraverso il rafforzamento degli organici, la formazione, l’adozione di strumenti informatici per la gestione delle banche dati, l’approvazione di interventi normativi, ma soprattutto stimolando la capacità di fare rete con il territorio, coinvolgendo e sostenendo gli enti locali e il terzo settore, ma anche i vertici delle Forze dell’ordine e soprattutto le Regioni, che hanno un ruolo fondamentale nel sostegno alla capacità di progettazione, in particolare per i comuni più piccoli. La Calabria è la prima regione in cui è stato sottoscritto un protocollo sulla valorizzazione tra i beni confiscati tra il ministro Matteo Piantedosi, il presidente Roberto Occhiuto e l’Agenzia nazionale. Nella regione ci sono oltre 3.400 beni già destinati a fini sociali o istituzionali, e nell’ultima conferenza di servizi in Calabria c’è stata una percentuale altissima di enti che hanno richiesto l’assegnazione di immobili, un dato prima impensabile».

Quasi tutte le inchieste della magistratura ci dicono che i tentacoli della ’ndrangheta hanno ormai invaso il mondo ma in Calabria sono sempre salde le sue radici. La grande battaglia contro le cosche si vince in Calabria?

«Le radici della ’ndrangheta sono ben salde in Calabria, ma i suoi interessi economici e i suoi affari si estendono in tutte le regioni italiane, soprattutto in quelle più ricche, e in altri paesi europei, dove ancora non c’è una reale consapevolezza della sua pervasività e della sua pericolosità. In Calabria c’è un lavoro straordinario delle due procure distrettuali antimafia, grazie anche al sostegno assicurato dai vertici delle nostre Forze di polizia che assicurano la presenza di personale di primo livello nei reparti investigativi. Ma la lotta alla ’ndrangheta richiede uno sforzo complesso e ad ampio raggio: bisogna stare col fiato sul collo alle ’ndrine in Calabria, colpirne gli interessi economici con le confische dei beni, seguirne gli affari nelle altre regioni ma anche all’estero, come stiamo facendo con il programma di cooperazione internazionale di Polizia “I-Can” sostenuto dal Ministero dell’Interno, che ha portato alla cattura di tanti pericolosi latitanti».

Torniamo in Aspromonte, il gen. Luzi ha detto che qualcosa sta cambiando in Calabria. Concorda?

«Partirei dal dire che quella calabrese è una società sana, fatta da gente perbene, laboriosa, legata ai suoi valori e alla sua identità, che non può essere oscurata da una minoranza di delinquenti. Nel contrasto a questa minoranza c’è una tensione istituzionale nel contrasto alla ’ndrangheta ancora più forte rispetto al passato. Oggi c’è un governo che ha una linea chiara e determinata contro le mafie, e che favorisce il dialogo e il gioco di squadra tra tutte le istituzioni statali e locali, dal governo ai vertici delle Forze dell’ordine, alla magistratura, alla Regione, ai comuni. Ciò porta innanzitutto a quella efficienza amministrativa che sbarra le porte al malaffare e ai fenomeni corruttivi. Soprattutto crea un clima di fiducia negli amministratori con la schiena dritta, negli imprenditori onesti, nei cittadini, la cui collaborazione è indispensabile nella costruzione di percorsi di legalità. Infine dà un segnale chiaro a tutta la classe politica, perché sia sempre tenuta alta la soglia dell’attenzione per scongiurare il rischio di condizionamenti e infiltrazioni nelle istituzioni democratiche».

I cambiamenti sono sempre lunghi e spesso faticosi. Lei può dire che oggi siamo sulla strada giusta per liberare la Calabria dalla ’ndrangheta?

«Siamo sulla strada giusta non solo per l’impegno messo in campo dal punto di vista della prevenzione e del contrasto della criminalità. Il governo sta investendo tantissimo sul rafforzamento degli organici delle forze dell’ordine, sulla dotazione di mezzi, sul potenziamento dei presidi. Ma questa guerra la vinceremo se saremo capaci di affrontare con efficacia i problemi della povertà, del disagio, del bisogno, che interessano ampia parte dei nostri territori. Noi abbiamo scelto di dare risposte non con i sussidi, ma con la dignità del lavoro e con le opportunità. Le istituzioni devono essere capaci di creare condizioni favorevoli alla crescita, investendo sul territorio, rimuovendo le incrostazioni, dando fiducia ai giovani che hanno talento e voglia di fare, sostenendo le energie sane e positive per togliere terreno al consenso sociale che si genera intorno agli interessi mossi dalla criminalità e dal malaffare. E poi investendo per recuperare il gap infrastrutturale che ha penalizzato per decenni l’economia dei nostri territori. La presenza a Gioia Tauro della presidente Meloni per la sottoscrizione del Patto di Coesione con la Calabria, prima regione del Sud, è la prova che il governo vuole andare in questa direzione».

A proposito di cambio di prospettive, l’idea del giudice Di Bella di offrire un’opzione ai figli dei boss per vivere una vita lontana dal crimine con il progetto “Liberi di scegliere” può essere un’arma in più per lo Stato?

«Seguo da molto tempo il progetto nato dall’intuizione del dottore Di Bella, che durante la sua esperienza di giudice minorile a Reggio ha compreso l’importanza di anticipare gli interventi preventivi rispetto all’azione penale, contrastando il modello educativo mafioso e allontanando i minori, quando necessario, da un contesto familiare che li avrebbe inevitabilmente trascinati nella spirale criminale. È un progetto che punta anche a sostenere le scelte di quelle madri coraggiose che si ribellano ad un destino di violenza e sperano in un futuro diverso per i propri figli, e che non devono essere lasciate sole ma sostenute con una rete di protezione e sostegno. A sostegno del progetto “Liberi di scegliere” il governo Meloni ha sottoscritto un protocollo interministeriale, esteso a diverse regioni, che punta a realizzare percorsi di educazione alla legalità, di inserimento scolastico e lavorativo, di tutela dal rischio che le scelte di rottura dai contesti familiari mafiosi possano essere oggetto di vendette o ritorsioni, iniziative su cui è particolarmente impegnato il Ministero dell’Interno».

I fatti di Bari hanno rimesso sotto i riflettori la legge sullo scioglimento dei Comuni infiltrati dalle mafie. È una legge che si può migliorare?

«Sul tema dello scioglimento degli enti locali per infiltrazioni mafiose, fondamentali per il ripristino della legalità nei territori in cui è maggiormente radicata la criminalità organizzata, abbiamo da tempo avviato una riflessione, innanzitutto partendo dalla situazione preoccupante degli scioglimenti reiterati di enti già commissariati, che sono la prova di aspetti di una certa inefficienza della normativa nel liberare gli enti dai condizionamenti mafiosi. Su questo tema stiamo già intervenendo nella riforma del Tuel, su cui il Viminale sta lavorando nell'ottica di un rafforzamento di tutti gli strumenti utilizzabili contro le infiltrazioni della criminalità organizzata, con modalità che si possano ritenere più appropriate secondo l'esperienza maturata in questi anni. L’auspicio è che ci possa essere un dibattito parlamentare sereno e collaborativo tra tutte le forze politiche, perché l’iter sia veloce e perché possa produrre una riforma davvero al passo con i tempi. Ritengo che si possa rafforzare il contradittorio, o prevedere forme di affiancamento amministrativo. Sospendere la democrazia ha un costo molto alto per l’economia dei territori, per questo quando si rendono necessari provvedimenti di scioglimento dobbiamo essere certi questi riescano a liberare quei contesti dalle mafie, ripristinare la legalità e il rispetto delle regole democratiche. Per questo bisogna intervenire in maniera più efficace su quei condizionamenti che si annidano non nella politica, ma nelle strutture burocratiche di enti locali e aziende sanitarie, e fare in modo che i commissari abbiano davvero tutti i poteri necessari a svolgere al meglio il loro lavoro».

Il Comune di Reggio Calabria è l’unico capoluogo di provincia che nel 2012 fu sciolto per “contiguità” mafiosa. Un concetto che fu un unicum nella storia repubblicana.

«Un concetto abnorme dal punto di vista giuridico, all’epoca il ministro Cancellieri lo definì un atto preventivo. In sostanza il Comune di Reggio Calabria venne sciolto per il contesto ambientale e non per infiltrazioni. È evidente che su quella decisione pesò il clima di ostilità politica. Fa riflettere che oggi il Pd descriva come un atto di guerra la decisione doverosa del Consiglio dei ministri di inviare una commissione di accesso a Bari dopo l’inchiesta con centinaia di arresti e le infiltrazioni emerse in una partecipata comunale, e tenta di sorvolare su affermazioni gravissime come quelle del governatore Emiliano sul suo ex assessore e attuale sindaco De Caro».

Il Ponte sullo Stretto è un affare miliardario che si dice stuzzichi gli appetiti mafiosi. Lo Stato riuscirà a rendere impermeabile questo appalto?

«L’idea di realizzare una grande opera non può essere abbandonata per il rischio determinato dalla presenza mafiosa. Lo sviluppo della Nazione si fermerebbe, al Sud come al Nord, perché Calabria e Sicilia non sono contesti meno rischiosi della Lombardia o dell’Emilia. Lo Stato ha gli anticorpi per contrastare il rischio di infiltrazioni della criminalità organizzata. La realizzazione di altre grandi opere, come ad esempio il ponte di Genova, sono un esempio della capacità di realizzare efficaci presidi antimafia. Ci sono le Forze dell’Ordine, c’è la magistratura, ci sono i protocolli di legalità che come Ministero dell’Interno adottiamo attraverso le Prefetture. Abbiamo un sistema normativo solido, che deve essere rigorosamente rispettato, e stiamo mettendo in campo ogni sforzo per coniugare lo sviluppo del territorio alla sostenibilità, alla sicurezza, alla trasparenza e alla legalità».

Lei è ottimista che lo Stato riuscirà a vincere questa guerra contro la ’ndrangheta?

«Sì, ed è un ottimismo radicato nei fatti e sul lavoro. Quando lo Stato è credibile ed affidabile, efficiente e trasparente, ciascuno si sente motivato ad assumersi la propria parte di responsabilità per affermare la legalità nelle scelte di ogni giorno. Questo cambio culturale sarà decisivo».

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