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Le gang cinesi fanno (ancora) più ricca la ’ndrangheta. Corrieri con milioni di euro nascosti in auto in Calabria

Macchine con doppi fondi pieni zeppi di contanti fermate mentre cercavano di lasciare la Calabria. È la versione calabrese dei “money broker”, i riciclatori cinesi che da anni avrebbero messo su una rete ombra per muovere denaro da un continente all’altro. Negli ultimi anni sono molti i cittadini cinesi fermati ai confini della Calabria con milioni di euro nascosti nelle automobili e questo ha fatto scattare un campanello d’allarme nelle procure calabresi.
Nonostante si sia ipotizzato l’esistenza anche a Reggio Calabria di una banca occulta, sul modello di quelle scoperte in altre città del centro e nord Italia, nella nostra regione secondo quanto appreso da fonti investigative non ci esisterebbe nulla del genere. Ne sono convinti gli investigatori che stanno indagando sul sistema hawala anche in Calabria.


L’hawala è un sistema bancario “sommerso” che funge da metodo alternativo per rimesse finanziarie. In parole povere, si tratta di un sistema di trasferimento di denaro basato sulla fiducia, creato secoli fa in India e Cina per facilitare lo spostamento sicuro di denaro. La magistratura italiana, e quindi anche quella calabrese, nel corso degli ultimi anni è riuscita a tracciare il passaggio di capitali illegali dai narcotrafficanti che agiscono in tutta Europa (moltissimi dei quali legati ai clan calabresi) a reti ombra di intermediari cinesi.
Nessuna banca occulta, quindi, ma c’è una particolarità che contraddistingue la Calabria rispetto alle altre regioni d’Italia: una quantità smisurata di denaro contante in mano alle cosche, provento del narcotraffico internazionale, che deve essere riciclato. Il collegamento tra i narcos e alcuni cittadini cinesi per pagare partite di droga dall’altro capo del mondo è un fatto ormai assodato. La decriptazione dei telefoni satellitari usati dai narcos calabresi, da parte delle forze dell’ordine di doversi paesi europei, ha permesso di leggere le chat e gli scambi di messaggi dei broker dei clan calabresi che discutevano delle modalità di consegna di soldi ad alcuni cittadini cinesi.

La struttura avvolta nell'ombra

E quando si parla di soldi con riferimento al narcotraffico si intende milioni e milioni di euro. L’halawa è un sistema basato sulla fiducia. È facile immaginare che la ‘ndrangheta debba riporne tanta nei confronti dei money broker cinesi per affidargli gli introiti da riciclare per pagare le partite di droga ai cartelli del Sud America.
La via calabrese ai money broker, però, non si conclude nell’individuazione degli uomini coinvolti in questa forma di riciclaggio di denaro, ma va ben oltre.
Gli investigatori calabresi, infatti, sono convinti che quello scoperto fino ad ora è solo la parte più bassa di un sistema molto più complesso.
Una sovrastruttura che regge il sistema a livello economico e che gli permette di funzionare al meglio. Dove si trovi la testa di questa presunta organizzazione è facile ipotizzarlo, ma non è ancora stato provato a livello investigativo. L’accesso a determinate informazioni è risultato quanto mai complesso, così come tracciare il movimento di denaro in determinati Paesi.

La movimentazione dei proventi del narcotraffico per il pagamento della merce in America latina (Perù, Bolivia, Colombia) rappresenta una prima forma di riciclaggio, ma l’autorità giudiziaria calabrese starebbe cercando di capire se la ‘ndrangheta, che dispone di una grandissima quantità di denaro in contanti grazie alla vendita della droga, possa usare quel sistema di banche occulte per ripulire il denaro e poterlo investire in attività lecite.
La scoperta di milioni di euro nei doppi fondi delle auto di cittadini cinesi in uscita dalla Calabria farebbe propendere per questa ipotesi.
Una teoria che confuterebbe, al tempo stesso, anche l’ipotesi che a Reggio Calabria esista una banca occulta operativa. Quindi, in Calabria non ci sarebbero sportelli illegali, ma tanti soldi a disposizione dei clan di ‘ndrangheta. Soldi che servono per pagare le partite di droga, ma che devono essere ripuliti per poterli reinvestire in attività legali.

Le forze di polizia calabresi starebbero guardando con interesse anche oltreoceano, negli Stati Uniti, dove il fenomeno è stato individuato e studiato prima ancora che in Europa. Le autorità statunitensi hanno dichiarato che i “money broker” cinesi rappresentano una delle nuove minacce più preoccupanti nella loro guerra alla droga.
Una minaccia presente ormai anche nel Vecchio Continente come certificato dalle indagini di diverse procure che nel corso degli ultimi anni sono riusciti solo a capire come funziona il livello base del sistema di riciclaggio. La sfida, adesso, è scoprire come funziona e da chi è gestito l’intero sistema.

Il metodo di trasferimento

Il metodo di trasferimento prevede la consegna di una somma di denaro all’intermediario in Europa, mentre un altro agente della rete in un’altra parte del mondo versa l’importo equivalente al destinatario. Il metodo dell’hawala può essere usato per trasferire sia soldi sporchi che puliti, lasciando limitata o alcuna traccia documentale. Come si può immaginare, questo rende questo metodo molto interessante agli occhi di chi deve riciclare denaro. Lo schema tracciato dagli investigatori e questo: un narcos deve pagare il carico di droga a un cartello in Sud America? Bene, i narcotrafficanti consegnano il denaro nelle mani di un cittadino cinese che contatta il suo omologo nel paese nel quale deve essere effettuato il pagamento e paga il creditore. Per gli inquirenti, come detto, questo è solo il primo livello. Cosa o chi c’è sopra non è ancora chiaro.
Questo rapporto tra i due cittadini cinesi si basa sulla fiducia e il pagamento del debito, secondo quanto appreso da fonti investigative, potrebbe avvenire in due modi: i due “banchieri” regolano le relative pendenze per compensazione (anche con l’intervento di un terzo soggetto che paga il debito dalla Cina) o tramite normale attività di commercio comprando una partita di merce per l’equivalente del denaro. Il fenomeno, però, non riguarda solo il mercato della droga, ma sarebbe molto più profondo. Secondo la Banca d’Italia, per esempio, le rimesse dall’Italia alla Cina sono calate dai 2,67 miliardi di euro del 2012 ai 22 milioni di euro nel 2021.

Questo farebbe pensare che le comunità cinesi in Italia abbiano deciso di trasferire denaro usando il metodo clandestino invece di usare i canali ufficiali. A questo proposito, la Guardia di finanza ha istituito un’unità speciale per monitorare il sistema bancario clandestino.
Le inchieste delle Fiamme gialle partono dalla scoperta di alcune banche clandestine con sedi Prato, Milano, Napoli e Roma: le città con le comunità cinesi più numerose nel nostro Paese. Il sistema è stato portato alla luce dall’intelligence italiana e permetterebbe ai chi usa questi sportelli occulti di inviare in Cina somme di denaro sottratti al controllo di Bankitalia e alle trattenute del fisco italiano di riciclare contanti frutto di attività illecite.

Decriptazione dei telefonini

Scardinare il sistema della piattaforma Sky Ecc usata dai nrocotrafficanti è stato fondamentale per gli inquirenti. Da una parte, infatti, ha permesso agli investigatori di individuare la metodologia usata dai narcos per organizzare i traffici di droga; dall’altra di capire come i soldi per i pagamenti venivano riciclati con nuovi metodi, grazie ai “broker money” cinesi che prendevano in consegna il denaro e lo facevano arrivare dall’altra parte del mondo senza farlo muovere dall’Europa. Sono numerosissime le intercettazioni decriptate dagli inquirenti che dimostrerebbe questo modus operandi.


Il 22 ottobre 2010, gli investigatori captano una conversazione di un calabrese che scriveva nella chat di gruppo che «il serbo stanziato in Colombia “John Gotti” gli avrebbe sollecitato il pagamento da effettuare tramite un gruppo di cinesi: “Mi ha scritto adesso colum di portare dai cinesi soldi”. Il metodo di pagamento che “John Gotti” indicava, che costituiva valida alternativa a quello dei cosiddetti “spalloni”, consisteva nel consegnare i soldi per il pagamento dello stupefacente ad attività commerciali gestite da cittadini cinesi, a loro volta in collegamento con altre attività gestite da loro connazionali, ubicate in altre parti del mondo».
Pertanto, sottolineano gli inquirenti, dopo aver consegnato il denaro ai cinesi presenti in Italia, in altro paese, «altri cinesi provvedevano a consegnatela somma equivalente al destinatario finale lì presente, beneficiario della transazione; questo metodo di circolazione del danaro, adottato quale artificio alternativo alle tradizionali transazioni bancarie e concepito funzionalmente per gli scopi delle organizzazioni criminali per effettuare transazioni connesse ad attività illecite transnazionali, permetteva di non lasciare alcuna traccia dell'operazione finanziaria eseguita».
Le intercettazioni dei narcos calabresi finite negli atti di indagine sono tantissime. Tra le tante, c’è quella tra l’indagato Carmelo Morabito “SLOAAC” e gli altri componenti della chat. Morabito li informava «che il giorno prima aveva venduto un kg di cocaina: “Io ho dato ieri uno e mi hanno portato i soldi oggi parenti”; faceva presente inoltre che il lunedì successivo, le stesse persone che avevano comprato nella giornata precedente, avrebbero acquistato altra sostanza stupefacente: «E lunedì ne prendono 5/10 pagano subito». In merito alle somme incassate, “Fotia G8HRUU” chiedeva di fargli sapere quanto avevano raccolto, al fine di inviare i soldi tramite i cinesi: «Vi dico chi dare così mando subito con cinesi».

Il sistema di pagamento

Secondo gli inquirenti che da tempo ormai studiano il meccanismo di riciclaggio, si atterrebbero a uno schema più o meno fisso: «I prelevatori di contanti - scrivono gli investigatori spiegando il metodo - venivano contattati, tramite applicazioni telematiche di messaggistica istantanea installata su appositi criptofonini in grado di impedire eventuali intercettazioni (in particolare, la piattaforma Sky Ecc), da intermediari ("broker") che utilizzavano utenze telefoniche sudamericane; i messaggi di questi ultimi, volti a sondare la disponibilità del "prelevatore" a procedere al prelievo ("pick up") di denaro, contenevano le indicazioni relative al luogo (giorno, ora, coordinate geografiche etc.), nonché informazioni in ordine ai "corrieri" incaricati di consegnare il denaro (autovettura utilizzata, aspetto ecc); - una volta ottenuta la disponibilità del "prelevatore", i "broker" richiedevano allo stesso un numero seriale di una banconota ("token") che gli avrebbe dovuto comunicare tramite messaggistica telematica; non appena ricevuta la banconota, il "broker" la inoltrava, direttamente o tramite terzi, ai soggetti che avrebbero effettuato la successiva consegna di denaro al "prelevatore"; - il "prelevatore" e il "corriere" si incontravano presso il luogo convenuto e il primo, quale segno di riconoscimento, mostrava la banconota "token" al secondo; una volta avvenuto il "riconoscimento", il corriere consegna il contante al "prelevatore"; - effettuato il "pick up'', il "corriere" e il "prelevatore" apponevano la loro firma sulla banconota "token", unitamente alla data e all'importo ritirato; la foto della stessa veniva poi inviata al "broker" sudamericano a conferma dell'avvenuto scambio; - successivamente, il "prelevatore" depositava il denaro su conti bancari/rapporti finanziari a lui in qualche modo riconducibili; quindi, sulla scorta di indicazioni ricevute dai "broker", direttamente o per il tramite di terze persone, lo stesso effettuava una serie di bonifici verso conti esteri (prevalentemente aziende commerciali realmente esistenti ubicate nel continente asiatico ed in quello americano), trattenendo per sé una percentuale a titolo di commissione; - il denaro proveniente dall'attività illecita veniva poi "ripulito" tramite l'acquisto di beni di consumo da parte degli stessi cartelli sudamericani, i quali a loro volta li rivendevano ad imprese locali; in questo modo, conseguivano un ulteriore profitto, tramite il cambio favorevole tra euro e valute locali, offrendo a prezzi concorrenziali beni».

Sotto copertura

Al cinema hanno i volti di Johnny Depp, quel Donnie Brasco che fornì preziose informazioni sulle famiglie mafiose più potenti di New York, ma anche di Al Pacino-Serpico o di Leonardo Di Caprio-Billy Costigan in “The Departed”; alla tv li abbiamo visti in “Miami Vice” o più di recente in “Undecover” su Netfix, agenti che sfidano il crimine a 360 gradi o indagano su un boss della droga fingendosi una coppia nel campeggio dove lui trascorre i weekend. Sono gli agenti sotto copertura, gli undercover per dirla all’americana, che nella realtà scolpiscono pagine di relazioni segrete e raccolgono elementi determinanti per le inchieste contro il narcotraffico. Esistono davvero, e lavorano ogni giorno sul filo del rasoio. Sono citati, e spesso in maniera determinante, nelle informative sfociate in decine di ordinanze di custodia cautelare contro la ’ndrangheta. E la stessa magistratura dà loro atto di un’attività tanto importante quanto rischiosa.

Gli ultimi – ma solo in ordine di esecuzione degli arresti – sono gli infiltrati delle maxioperazioni “Eureka” e “Aspromonte Emiliano”. Nel primo caso, hanno operato almeno in tre: un poliziotto belga, uno australiano e un altro falsamente originario di Lille, in Francia. Il primo capace di addentrarsi negli ambienti criminali calabresi di Genk, il secondo pronto a ricevere nell’area portuale di Melbourne un carico di prova di 30 chilogrammi di coca a conclusione di complesse trattative con le ’ndrine monopoliste dei traffici, il terzo entrato “in gioco” per alcuni aspetti logistici dell’organizzazione legati soprattutto all’allestimento dei vani segreti nelle auto per il trasporto della droga.


Il belga soprattutto ha vissuto per mesi all’interno di famiglie trapiantate da San Luca nel “cuore” del Vecchio Continente, lì dove la vicinanza con la Germania avrebbe permesso affari d’oro con la droga e il riciclaggio. Conquistata la fiducia dei calabresi, l’undercover è stato coinvolto in prima persona in importanti trattative per l’acquisto di droga tra il Sudamerica e l’Ecuador. Parlavano e si confidavano con l’agente i futuri arrestati. Raccontavano il loro passato, ostentavano parentele pesanti, davano lezioni di “cultura criminale”, gli chiedevano di procurare armi. In un pranzo durante il lockdown– come la “Gazzetta” ha già raccontato nelle scorse settimane – all’insider sono stati mostrati un video su San Luca e la ’ndrangheta ed un altro sulla strage di Duisburg.

«San Luca è la mamma della ’ndrangheta», gli hanno spiegato. L’agente chiedeva come diventarne membro: «Quelli già affiliati garantiscono per te di fronte all’organizzazione». Per l’infiltrato una miniera di informazioni, con legami che portano fino alle formazioni paramilitari colombiane attive nell’area di Turbo e al “Clan del Golfo”, potente organizzazione paramilitare e narco-terroristica colombiana facente capo, sino all’ottobre del 2021, a Dairo Antonio Osuga soprannominato “Otontel”. Ma non solo: è stato lui, l’agente, a conoscere per primo i segreti dei sistemi di comunicazione criptata successivamente “aperti” dagli inquirenti che hanno avuto accesso a milioni di chat. “Sky Ecc” ma anche altri sistemi di cifratura, quali “Ciphr”, “City”, “Secure Shadow”, “Secure Group” e “Signal”, al costo «di circa 6.000 euro mensili» ha relazionato l’agente.
Nel caso di “Aspromonte Emiliano”, l’infiltrato è invece un militare italianissimo dello Scico della Guardia di Finanza, che – da Trento in giù, verso sud – è riuscito ad addentrarsi «all’interno di un contesto criminale di notevole rilievo» sempre nel settore del narcotraffico. Ed è stato lui – con la «rischiosa attività posta in essere», annotano i magistrati – a fare luce sul sofisticato meccanismo di trasferimento di grosse somme di denaro, «costituenti il saldo o l’anticipo di partite di droga». In Emilia Romagna ha maneggiato centinaia di migliaia di euro in contanti il finanziere sotto copertura: secondo quanto riportato nell’ordinanza di custodia cautelare della Dda di Bologna avrebbe partecipato al prelievo, «per conto di alcuni soggetti di origine calabrese residenti in provincia di Reggio Emilia», di 260mila euro il 4 dicembre 2020, di 290mila euro il successivo 5 gennaio e di ulteriori 300mila il 26 gennaio 2021. Tutto è nato con un’inchiesta della Procura di Trento, che ha piazzato l’agente in un’organizzazione sospettata di riciclare il denaro dei narcos sudamericani. Dai criptofonini ai passaggi di denaro contante, l’attività dell’infiltrato ha permesso via via di mettere tutti i tasselli nel mosaico. In soli tre incontri sarebbero passati di mano 850mila euro sonanti. “Architetti” dell’operazione sarebbero stati tre calabresi tutti «più o meno direttamente collegati con gruppi criminali di matrice ’ndranghetista operanti nella provincia di Crotone, ma con ramificazioni anche nel Nord Italia».
Grazie fra l’altro all’impiego di un “Imsi catcher”, strumento che agisce come un “falso ripetitore”, gli inquirenti sono riusciti a verifica la presenza, nell’area interessata dal monitoraggio, di tre dispositivi con tecnologia “Sky Ecc”, appartenenti ai tre calabresi «che avevano incontrato l’undercover». È il cerchio che si chiude, almeno per il momento.

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