Il dominio totale. E la “legge” della ’ndrangheta. Imprese edili, supermercati, gioiellerie, laboratori medici, parrucchieri, concessionarie di auto, venditori di fiori, commercianti ambulanti, ristoranti, bar e pizzerie, società di sicurezza privata, proprietari d’immobili: tutti a Cosenza e Rende dovevano mettersi “a posto”. Per campare tranquilli e non essere inseguiti da improvvisi roghi notturni, bottiglie incendiarie nei cantieri, serrande sforacchiate dalle pallottole.
È il quadro drammatico descritto dalle carte della maxioperazione “Reset” che conta 245 indagati e più di duecento capi d’imputazione. Il procuratore Nicola Gratteri, l’aggiunto Vincenzo Capomolla e i pm antimafia Vito Valerio e Corrado Cubellotti svelano uno scenario lontano anni luce dalla fittizia immagine dell’«isola felice» raccontata per decenni al resto del Paese. Le due città “sorelle” hanno vissuto e vivono una pressione della criminalità organizzata diventata col tempo asfissiante. E che non risparmia altre comunità urbane contigue come Castrolibero, Montalto Uffugo e alcuni centri della Valle dell’Esaro.
Il lavoro svolto da carabinieri, poliziotti e finanzieri ha consentito di avere una mappa precisa delle cosche “confederate” capaci di dividersi, senza spargimento di sangue, fette di mercato e d’interessi: usura, estorsioni, gioco d’azzardo, traffico di droga, servizi di vigilanza, subappalti. Sei le consorterie abituate ad agire in sinergia: il gruppo di Francesco Patitucci, quello di Roberto Porcaro, il clan di Adolfo D’Ambrosio, la cosca di Michele Di Puppo, il gruppo dell’ergastolano Franco Presta, il sodalizio di Fioravante Abbruzzese “banana”. Nomi, fatti, date e reati costituiscono l’ossatura dell’inchiesta irrobustita dalle confessioni di vecchi e nuovi collaboratori di giustizia: Giuseppe Zaffonte, Roberto Presta, Celestino Abbruzzese e Anna Palmieri, Danilo Turboli e Ivan Barone gli ultimi arrivati.
Leggendo le carte ci si accorge che ci sono imprenditori costretti a pagare il “pizzo” anche per dieci anni di seguito senza mai aprire bocca: mai una denuncia, mai una imbeccata. Tutti zitti. La ragione di tanto silenzio? La paura prima di tutto e, poi, la sensazione che tutto sia irredimibile. L’inchiesta della Dda di Catanzaro conferma, invece, tutto il contrario. Basta un po' di coraggio per cambiare le cose, sganciandosi dai timori e dalle forzate cooptazioni.
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