Avevano il terrore degli odiati sbirri. Di chi li aveva già indagati a Reggio Calabria, e che adesso occupavano le postazioni nevralgiche dell’Antimafia a Roma: il capo della Procura Giuseppe Pignatone, l'aggiunto Michele Prestipino ed il dirigente della Squadra Mobile, Renato Cortese. Non si davano pace boss ed emergenti della ’ndrina Alvaro, la cellula romana della potentissima famiglia di Sinopoli e Cosoleto decapitata martedì dalla doppia retata “Propaggine” con 77 arresti sull'asse Calabria-Lazio. Gli indagati sapevano che dopo l'esperienza a Reggio si erano trasferiti in blocco nella Capitale. Li conoscevano e li temevano come emerge dai commenti degli indagati intercettati dai segugi della Dia. Il tema è posto in evidenza dal Gip che ha firmato il filone d'inchiesta romano: «Poco dopo Carzo Antonio aggiungeva che il rischio era anche maggiore a Roma, dove erano stati trasferiti una serie di magistrati e di ufficiali di P.G. che avevano lavorato in Calabria e avevano combattuto a Sinopoli e Cosoleto contro gli Alvaro (“tutta la famiglia nostra”)». Leggi l'articolo completo sull'edizione cartacea di Gazzetta del Sud - Calabria