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Moni Ovadia: "È un cimento ma la Calabria è un luogo magico"

E’ il primo pomeriggio di un fine marzo freddo e ventoso, a Catanzaro, quando sul centrale e deserto Corso Mazzini vedo per caso, da lontano, Moni Ovadia. Inconfondibili la sua silhouette, i suoi colori, la sua kippah, le movenze, e mi chiedo cosa faccia in quest’ora astrale lo scrittore, attore, musicista, cantante, poliglotta e cittadino del mondo. E ora pure regista, come mi spiega mentre conversiamo. «Bello trovarsi qui, nel vento di questa città che non conoscevo, è un set naturale, mi piacciono le sue vie in discesa e salita, la sua topografia sghemba, i suoi vicoli. Sono qui per il mio esordio a 76 anni da regista, per un film, “La terra senza”, prodotto da Rean Mazzone (già produttore, tra le altre cose, di “La mafia non è più quella di una volta” e di “Belluscone, una storia siciliana” di Franco Maresco). È un cimento, ma la Calabria è una terra magica, normale che il cinema sia attratto dai suoi luoghi. C’è tutto, è già qui, paesaggi, esterni, interni, tradizioni. Abbiamo ricostruito, ad esempio, la “Naca” del venerdì santo catanzarese, con il Cristo morto “’nnacato” in una sorta di vello lanoso (il termine “naca” è greco). Terra magica pure con i suoi “senza”, con i suoi problemi».
E se lo dice Ovadia, che ha il viaggio dentro di sé ed è sempre venuto da altrove (presenti in varie parti d’Europa i suoi antenati dopo la cacciata degli ebrei dalla Spagna), profugo in Italia da piccolissimo (ma nato in Bulgaria) e con cittadinanza italiana. Insomma, la geografia millenaria, l’“infinito viaggiare” gli appartengono da sempre. Naturale, dunque, che per un «vagabondo» come lui, con le orecchie e gli occhi aperti sul mondo, il cinema sia un territorio da percorrere anche con la responsabilità della regia, attraverso le suggestioni dell’attore calabrese e amico Carlo Greco, già protagonista della pièce teatrale “La terra senza”, tratta dal lavoro di Anna Vinci (debuttato al Politeama di Catanzaro nel 2008).
«Mi ero già occupato di regia per la ”Nota stonata” del drammaturgo francese Didier Caron – racconta Ovadia – e per questo dramma, con attori Carlo Greco e Giuseppe Pambieri, avevo “usato” la traduzione dall’originale di Carlo Greco. Una vicenda nella quale attraverso la memoria lacerata affiorano verità seppellite e fantasmi del passato. Ora ci riprovo e dopo i momenti iniziali di disorientamento, ho “sentito” di dovermi interessare della sceneggiatura. Verrà fuori un film, di cui abbiamo finito le riprese, con attori del Sud: Carlo Greco è di Catanzaro, e la coprotagonista Donatella Finocchiaro nella parte della sorella e il giovane figlio di lei, Aurelio D’Amore, sono siciliani».
E se appare chiaro il legame, indiscutibile, di Greco con la sua terra – luoghi, peraltro, di divinazione in cui il cinema entra come un medium – , per Ovadia sono state incredibili «le suggestioni date da una città poco conosciuta di una terra di grande interesse, con una fibra molto forte, una terra che sicuramente può dare molto al cinema. Ma questa storia, anch’essa molto forte, non attiene solo alla Calabria, le sue vicende che si svolgono quasi interamente in un palazzo nobiliare della vecchia Catanzaro, palazzo Leone, attengono a tutta la nostra storia italiana».
Si tratta infatti di un ritorno del protagonista nella sua terra lasciata molti anni prima dopo un fatto traumatico che lo ha fatto diventare uno scrittore contro la ’ndrangheta. «Ma è un ritorno – spiega Ovadia – per chiudere, non per ritornare veramente. Il tema è, infatti, attraverso il flashback di 35 anni prima, il disgregarsi di una situazione familiare, l’incancrenirsi dei rapporti. Ecco perché si svolge prevalentemente in un interno (peraltro molto bello e singolare), con la “religione” della famiglia al centro e i suoi piccoli/grandi mali talmente forti, per cui pure la memoria è condizionata dai pregiudizi, che i destini finiscono per esserne piegati».
«Con questo film, autopropedeutico, continuo a scoprire me stesso, a misurarmi col mio io. Mi interessano molto questi temi, gli autoinganni e i vuoti della memoria», dice Ovadia. E contro pregiudizi e stereotipi, contro la retorica celebrativa cui non manca di rispondere con provocazioni, libri e pamphlet, tra i quali “L’ebreo che ride” e “Il coniglio Hitler e il cilindro del demagogo”, e performance dal vivo, Ovadia combatte da sempre. «Questo meraviglioso Paese che è l’Italia, basti pensare alla ricchezza dei suoi dialetti (e lo attira il calabrese con le sue diatopiche varianti e in mezzo la componente grecanica, arberëshë, bizantina e latina e le sue vocali aperte ad ospitare il mondo), si ostina, e lo dico con rammarico, a non investire nella cultura. È la cultura a dare futuro al Paese, la valorizzazione e la protezione del territorio e della sua gente, dei suoi giovani. E invece a loro cosa diamo, cosa dà la classe dirigente? Retorica e falsa coscienza. Più se ne parla, dei giovani, e meno ricevono. Ho sempre sostenuto che la guerra è criminale, che il bilancio delle vittime delle insensate guerre odierne è soprattutto di innocenti civili, sono stato accusato di essere, io ebreo, antisemita per aver usato termini come “colonie” e “muri” riguardo alla questione israelo-palestinese e per aver contrastato la politica israeliana, ma pure nella situazione di oggi, della guerra russo-ucraina, l’ideologia e la strumentalizzazione prendono il sopravvento».
Lo dice con il piglio di sempre, appena più dolente e disilluso, salvo restando il suo senso dell’umorismo come medicina (pensiero di Tommaso Moro e di Papa Francesco). Ma Moni Ovadia, mentre parla, è già lontano, pronto per un altro viaggio, per altre avventure.

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