Calabria

Martedì 26 Novembre 2024

Scott Rinascita, da Melfi a Lamezia la difesa di Pittelli: "Non sono un massomafioso"

Giancarlo Pittelli

«Avete l’obbligo morale di restituirmi oggi, subito la dignità e la vita che mi è stata rubata. Ho una sola preghiera: leggete gli atti». Sono le ultime parole pronunciate da Giancarlo Pittelli che ieri ha chiesto e ottenuto di fare spontanee dichiarazioni dal carcere di Melfi in cui si trova detenuto. Accusato di concorso esterno in associazione mafiosa nell’ambito del maxi processo Scott Rinascita, l’ex senatore di Forza Italia rivolgendosi ai giudici del collegio in due ore ha cercato di fornire la sua versione degli episodi che gli vengono contestati dalla Dda di Catanzaro. Più volte il penalista catanzarese ha urlato la sua innocenza: «Sono un uomo perbene». Ha puntato il dito contro quello che ha definito un «massacro mediatico»: «Sono stato descritto - ha detto - come il sostituto in terra di Lucifero e di me è stata data un immagine distorta». In più occasioni ha evidenziato il fatto di non aver potuto difendersi prima davanti all’autorità giudiziaria, di non essere stato interrogato dai magistrati della Dda. In premessa è anche tornato sulla lettera scritta al ministro per il Sud Mara Carfagna che gli è costata l’aggravamento della misura cautelare con il ritorno in cella dallo scorso 7 dicembre: «Non ho scritto al ministro per avvelenare i pozzi o per condizionare il processo ma solo per gridare il mio dolore e la mia disperazione. Ho scritto a una amica e nei giorni scorsi le ho mandato un’altra lettera per chiederle scusa per averla coinvolta in questa storia». Pittelli, difeso dagli avvocati Salvatore Staiano e Guido Contestabile, ha diviso il suo intervento in capitoli, il primo dedicato all’accusa di far parte di una loggia massonica deviata.

«Non sono un massomafioso»

L’avvocato catanzarese ha ripercorso il suo rapporto con la massoneria ufficiale. Ha spiegato di avervi aderito nel 1984. «Dopo pochi mesi - ha raccontato - mi resi conto che non era per me interessante, la ritenevo una perdita di tempo. Feci forse dieci riunioni, mai manifestazioni, mi dedicai solo al lavoro e alla politica». Già negli anni Novanta Pittelli avrebbe lasciato la massoneria ufficiale. Si sarebbe dedicato solo all’avvocatura e all’attività politica, diventando prima consigliere poi assessore comunale. Proprio parlando della sua carriera di amministratore pubblico Pittelli ha svelato che nel 1999 gli era stata offerta la candidatura a governatore della Regione, ma lui rifiutò indicando invece il nome di Giuseppe Chiaravalloti. Ma proprio nei primi anni del nuovo millennio sarebbe nata quella che Pittelli definisce la «leggenda dell’avvocato massomafioso che può aggiustare i processi». A creare questo “mito” sarebbe stato l’allora pm Luigi De Magistris che nel 2007 lo indagò per violazione della legge Anselmi. Accuse tutte archiviate, «eppure lo stesso De Magistris continua a fare campagne elettorali parlando di massomafia. Gli stessi pentiti che hanno sostenuto che io avrei corrotto giudici sono stati smentiti. Chiamateli a testimoniare in aula questi giudici che io avrei corrotto. Tutti sanno invece che io non sono mai entrato nelle stanze dei giudici se non per un saluto o per una richiesta lecita». Pittelli chiude il capitolo bollandolo come «pettegolezzi carcerari e giudiziari».

Il rapporto con il boss

Il capitolo dedicato al mammasantissima di Limbadi Luigi Mancuso inizia con una frase sibillina: «L’ho difeso per la prima volta nel 1981, mi fu indicato da un cliente catanzarese di cui prima o poi mi ricorderò il nome e certamente a qualcuno non farà piacere». Il rapporto sarebbe andato avanti fino al 2007, poi il boss gli revocò la nomina. Luigi Mancuso sarebbe rientrato nella vita professionale di Pittelli nel 2016. Sarebbe stato Giovanni Giamborrino a chiedere all’avvocato di ricucire i rapporti con il boss. Lo avrebbe fatto andando nel suo studio per chiedere all’avvocato di rientrare di un debito con un professionista vibonese. In quel periodo Luigi Mancuso era irreperibile, ma Pittelli viene accompagnato da Giamborino a Limbadi e i rapporti tra avvocato e assistito sono stati ricuciti. «Ho avuto frequentazioni carcerarie ed extracarcerarie intense - ha sottolineato - ma mai mi ha rivolto richieste illegittime». A casa di Mancuso, racconta sempre Pittelli, ci sarebbe andato per portare un libro sulla scomunica dei mafiosi. Sarebbe stato proprio l’allora vescovo di Catanzaro a chiedere all’avvocato di consegnare il volume al boss. Pittelli ha svelato anche la risposta del capobastone: «Mi disse “avvocato, voi avete scelto la vostra strada. Il vescovo la sua strada. Io ho scelto la mia”».

L’inizio della fine

Ma proprio l’ex vescovo di Catanzaro ritorna nel racconto di Pittelli. «Il vescovo aveva un progetto politico per la Calabria. Mi chiamò e ci andai con un elenco di circa 250 nomi». Pittelli ha sostenuto di aver saputo di essere indagato da Paolo Pollichieni (giornalista deceduto nel maggio 2019) «perché avevo detto o scritto ciò che non dovevo dire o scrivere». Sarebbe stato poi lo stesso vescovo, dopo aver parlato con un magistrato, a far capire a Pittelli di non essere più gradito. L’ex senatore ha detto anche di aver saputo dall’ufficiale della Dia Michele Marinaro, anch’egli imputato, che un magistrato della Procura, «di cui non farò mai il nome, gli riferì di non frequentarmi più».

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