Capra e vino, le 'ndrine a tavola: le intercettazioni tra i big della 'ndrangheta in Lombardia
Quel giorno Antonino Belnome lo ricorda bene: «Quando fu celebrato il rituale della mia affiliazione alla 'ndrangheta, eravamo in un terreno con una baracca e per l'occasione era stata organizzata una mangiata con carne arrostita». Nulla, a cominciare dal menu, in certe occasioni viene lasciato al caso: la regola vale più che mai per le cosche, dove riti quasi ancestrali assumono un significato importante. Sono le cosiddette “mangiate”, quelle occasioni conviviali che in certi ambienti diventano occasione per summit di alto livello, dove si decidono strategie criminali, vita, morte e soprattutto affari. Spesso ne hanno parlato i collaboratori di giustizia e in più d'una inchiesta i magistrati si sono imbattuti in intercettazioni… a tavola. L'ultimo spaccato arriva dalla Dda di Milano, che nel decreto di fermo - poi confermato - di uno dei tre filoni della recente inchiesta “Nuova Narcos Europea” ricostruisce numerosi pranzi e cene tra big della 'ndrangheta in terra lombarda.
Così dagli Anni Novanta
Nel suo memoriale, il collaboratore di giustizia Antonino Belnome, 49enne già capo del locale di Giussano con dote di “padrino”, chiarisce che il cibo, i gesti, le ritualità, persino la disposizione dei commensali a tavola sono il frutto di un rigido cerimoniale e servono a rimarcare la posizione gerarchica dei partecipanti: «Riunioni, mangiate con capretto o agnello (pasto abituale delle 'ndrine, ndr) con tutti gli uomini seduti e tu seduto “capo tavola”… guardavo tutti in faccia e tutti potevano guardare me, si poteva iniziare a mangiare quando io davo l'invito con un “buon appetito”. Nessuno poteva mangiare finché non si diceva la fatidica parola e la potevo dire solo io, era come essere tre metri sopra il cielo». Anche la scelta del menu va attentamente valutata, poiché gli alimenti consumati durante le “mangiate” devono essere tipicamente aspromontani, per contribuire a rafforzare il concetto di identità - il cosiddetto cordone ombelicale - tra il locale lombardo e la madrepatria calabrese: «Quando si organizzavano determinate mangiate, il vino, i formaggi, il pane, i salami erano tutti scrupolosamente fatti arrivare dalla Calabria come da tradizione…».
Tutto studiato nei particolari
«Che vino porto? Cinque bottiglie?», domanda un affiliato che, intercettato, si prepara a partecipare a un pranzo. La 'ndrangheta parla anche attraverso il cibo ed i banchetti tra affiliati ad un locale sono normati da regole ed usi comportamentali, che servono a marcare le differenze tra i partecipanti. Storico, in questo senso, è un passo della sentenza datata 1998 del Tribunale di Milano nel processo “I fiori della notte di San Vito” che ha coinvolto la cosca Mazzaferro, partita dalla Locride e capace di costruire un impero in provincia di Como senza perdere le vecchie abitudini: «Il gesto del mangiare assieme, e massimamente del consumare insieme la carne di capra ha il valore cerimoniale di una conferma dei valori di solidarietà ed amicizia reciproca, parte integrante di un momento significativo per la vita dell'organizzazione. Ad esempio, la cerimonia di conferimento di una dote trova il suo necessario complemento in una mangiata cui partecipa, esprimendo per la prima volta il suo nuovo status, l'uomo d'onore che ne è stato il beneficiario». “Il sole bacia chi vede” si sentiva dire, d'altronde, collaboratore di giustizia Luciano Nocera rimproverato dal capo locale di Canzo (Como) perché non frequentava le periodiche riunioni tra affiliati.
Non c'è posto per tutti
Nell'ultima inchiesta, la Dda di Milano s'imbatte in numerose “mangiate”. Una delle prime, a ottobre del 2019, è in un ristorante di Lomazzo (Como), organizzata da Michelangelo Belcastro appena un mese dopo la scarcerazione con la partecipazione di affiliati “svizzeri”. «Devo portare qualcosa... vino… qualcosa?», chiede un invitato ricevendo l'icastica risposta: «La presenza». C'è da festeggiare la recente scarcerazione, ma anche discutere di affari. Inviti ed esclusioni sono appositamente studiati: «Quello non si parla con Michele perché hanno avuto un problema, l'altra volta ho visto che ha parlato avvelenato perché non lo può vedere, poi mi sono detto lo porto là? Non voglio che esce magari qualche cosa…». Al 3 gennaio 2020 risale un appuntamento tra coltelli e forchette a Giffone: si sarebbe parlato anche di una mancata affiliazione per questioni “comportamentali”. «Vartolu si è impuntato, gli ha detto non ti permettere… lui deve stare com'è… e anzi gli ho detto… glielo devi dire, queste cose non le deve nemmeno chiedere… Tu stai bene come stai… sei vicino a me… Con Pasquale una sera siamo andati a mangiare la capra, poi siamo scesi sotto con Massimo e non voleva, ha detto no!». Il diniego sarebbe legato al comportamento di fronte a una raffica di arresti: «Perché di noi non gli è dispiaciuto a nessuno… di te non gli è dispiaciuto quando hanno arrestato a tuo padre! Ridevano quando hanno saputo che vi hanno arrestato, ridevano tutti, si sono buttati tutti con lui, hanno fatto mangiate perché il bastardo con i soldi si comprava a tutti, no?». A febbraio 2020 nuovo appuntamento a Giffone: «Per la carne non c'è problema, quando arriviamo mangiamo e invitiamo pure quegli amici che ho trascurato veramente che non sono venuti...».
Il modello oltreconfine
A Zurigo si svolge un altro summit documentato nell'inchiesta lombarda. Tra i protagonisti Pasquale e Michelangelo La Rosa, detto “Bocconcino”, entrambi originari di Giffone e accusati di appartenere al locale di Fino Mornasco. Pasquale è «figlio del “mammasantissima” Giuseppe La Rosa (alias “Peppe la Mucca”)», Michelangelo sarebbe in possesso «della dote superiore al “vangelista”». L'orto di un loro parente, a maggio 2020, avrebbe ospitato una “mangiata” a base di capra «a cui sicuramente deve essere attribuita la natura di riunione mafiosa». A tavola vengono rievocati eventi passati e soggetti calabresi tra Svizzera e Germania, ma si parla anche «degli attuali assetti criminali». Lo stesso padrone di casa avrebbe affermato «di essere organico alle famiglie mafiose del mandamento della Jonica», tra Bova Marina e Brancaleone. Parla tanto quest'ultimo: «Andavamo là, mangiavamo capra, non è… con tutto che negli anni, negli anni, non andavamo tanto d'accordo con il locale di Frauenfeld… Achille era in Germania, al “locale” c'erano tutti questi, tutti “fabricioti”, invece al “locale” dove eravamo noi, eravamo tutti della zona di Reggio, però eravamo tutti, la maggior parte “da chiana” eravamo noi tutti di Palizzi fino a Brancaleone, fino a… tutti di là eravamo, eravamo 70 noi, una cosa impressionante, che poi, chi se n'è andato, chi è stato arrestato… se ne sono andati tutti e siamo rimasti in pochi… neanche due manate, siamo in tutto qua ormai! E ci sono quelli di Cassari là, quelli della Germania, adesso con questo coronavirus era… ci riuniamo a livello di mangiare… qualche volta, guardati, mangiamo e beviamo, però non vogliamo, qualcuno vuole qualche copiata… per adesso, in questo momento qua…».
Matrimoni e “trascuranze”
C'è un banchetto di nozze in provincia di Reggio, subito dopo il Ferragosto del 2020. «La rilevanza e l'importanza di tale evento è legata al dato, ormai acquisito per esperienza giudiziaria, che i matrimoni, come anche altre riti religiosi, quali battesimi o funerali, rappresentano, per gli appartenenti alla 'ndrangheta, occasioni per tenere riunioni in cui discutere di eventuali problematiche o anche solo al fine di rinsaldare i legami tra gli affiliati«, annota la Procura antimafia milanese. Fra l'altro, si parla di “buona creanza” e di comportamenti rispettosi da mantenere in Calabria come su in Svizzera: «Uno... due, quando uno parla tu devi stare ad ascoltare... quando uno più anziano parla… tu lo devi ascoltare, poi se vieni interpellato rispondi altrimenti... no… che cosa? Vedi che tu, asino, gli occhi te li hanno... gli occhi te li hanno aperti i miei fratelli... altrimenti non eri da nessun posto... che non sei niente e non sei nessuno… e come ti hanno aperto gli occhi te li chiudono». Anche in questo caso spunta una “trascuranza” a cui porre rimedio con delle scuse, della quale parlano Michelangelo e Massimo La Rosa, fratello di “Peppe La Mucca”. In particolare, i due commentano un diverbio finito con il pestaggio di un uomo di Fabrizia: «Salvatore è pulito... ha fatto questa trascuranza e infatti l'ha capito... ma avete parlato di qualcosa? Che è giusto che gli chieda scusa... scusa per il gesto… e le mani».
Paura delle intercettazioni
A settembre 2020 i riflettori si accendono nel Comasco. In questo caso il padrone di casa «si mostra preoccupato - relazionano gli inquirenti - proprio per le “mangiate” effettuate presso la propria abitazione». E dice, intercettato: «Noi casino ne abbiamo fatto lì… mangiate… cose… sempre… con questi qua sempre, fino ad adesso, quando è uscito Tommaso eravamo lì davanti una quindicina che mangiavamo». Michelangelo La Rosa, ancora lui, consiglia all'interlocutore di evitare per il futuro («Ma non ne fare più»), un accorgimento peraltro già messo in atto dal padrone di casa che afferma di avere anche avvisato «tutti» gli appartenenti al gruppo: «No, non verrà più nessuno là, gliel'ho detto a tutti… che vengono, che ci inguaiamo tutti?». Tra una cena in cui si raccontano riti di affiliazione («L'hanno battezzato con la spada… ti ricordi?») e altre nelle quali vengono ricordati gravissimi episodi intimidatori («L'ho preso a schiaffi a casa dei suoi, è vero Pippo?»), fanno capolino le armi: «Sì, anche una cartucciera da 200, 300 cartucce alla volta te li spara... in 10 minuti non ne hai più... minimo… Un kalashnikov quanti ne spara al secondo? 20 cartucce al secondo sai quando le spara?». La conversazione «non necessita di ulteriori commenti», chiosano gli inquirenti nell'informativa. Buon appetito.
L'altra tradizione del ghiroe i sequestri in Aspromonte
C'è una “chicca” nei menu più “in” delle tavolate di 'ndrangheta: il ghiro, da sempre considerato il piatto dei boss. Specie protetta, il roditore fa parte del rituale arcaico degli incontri pacificatori. Nei giorni scorsi i Carabinieri, in Aspromonte, ne hanno sequestrato a centinaia imbustati in sacchetti di plastica e conservati nei congelatore; molti altri sono stati trovati vivi in gabbie per essere ingrassati e poi uccisi. Alcune persone, le ultime tre a Delianuova, sono state arrestate con l'accusa di cattura ed uccisione di animali di specie protetta. La leggenda riporta che quando ci si riuniva per decidere su una condanna a morte, il capo tavola (il boss più alto in carica) azzannava il ghiro per la testa e poi indicava il nome di colui che deve essere soppresso.