La dottoressa Paola Neri, professore associato di Medicina all'Università di Calgary in Canada, da anni è impegnata nell’ambito della ricerca traslazionale “from bench to bedside” per la messa a punto di nuove strategie di trattamento dei tumori e specificatamente del mieloma multiplo. Catanzarese di Marcellinara, si è laureata alla “Magna Graecia”, dove ha completato il suo percorso di specializzazione in oncologia medica e di dottorato in oncologia molecolare e immunologia sperimentale. La sua formazione professionale è quindi proseguita prima al “Dana Farber cancer institute & Harvard medical school” e successivamente a Calgary, dove la Neri è anche attending physician of hematology e membro attivo dell’“Arnie Charbonneau cancer institute”. Dal 2019 è inoltre direttore scientifico del Precision oncology hub (translational research laboratory) al “Tom Baker cancer centre”, istituto di assoluto valore internazionale. L'illustre medico calabrese ha appena ricevuto il prestigioso premio “Ken Anderson young investigator Award” a Vienna e il suo studio si concentra sul mieloma multiplo, con particolare interesse per le caratteristiche genetiche.
Professoressa Neri, in cosa consiste il suo lavoro di ricerca?
«È volto allo studio molecolare (genetico) delle cellule di mieloma e delle cellule immunitarie, soprattutto “T” che permettono lo sviluppo della malattia, con l’obiettivo di identificare i fattori coinvolti nello sviluppo di resistenza ai farmaci anti-mieloma che oggi usiamo per trattare i nostri pazienti. L’identificazione dei fattori è estremamente importante, in quanto alcuni di questi elementi possono essere prevenuti e altri risolti con l’utilizzo di appropriate terapie biologiche. Risulta sempre più evidente nel caso del mieloma, come in molti altri tumori, che ogni terapia va individualizzata al paziente se vogliamo trovare una cura per la malattia».
Per la cura quali i possibili sbocchi terapeutici e quindi dell’evoluzione di nuovi farmaci?
«Negli ultimi anni la ricerca sul mieloma ha fatto grandi progressi ed ha permesso lo sviluppo di nuovi farmaci che oggi sono disponibili. Di recente è stata utilizzata l’immunoterapia e abbiamo inoltre scoperto che anticorpi monoclonali anti-CD38 e terapie a base di cellule “T” come l’anti-BCMA CART usate come terapie di salvataggio quando la malattia si ripresenta, sono capaci di indurre significative risposte cliniche e prolungare così la sopravvivenza dei nostri pazienti. Sulla base di questi dati ritengo che se questi approcci terapeutici vengono utilizzati come prima linea di terapia al momento della diagnosi, possono indurre una risposta clinica più lunga e curare finalmente i pazienti».
Le è stato recentemente conferito un premio prestigioso, il “Ken Anderson”, per il suo lavoro di ricerca. Le sue emozioni?
«La notizia mi ha riempito di gioia. Il professore Anderson è stato il mio mentore durante il periodo di ricerca a Boston, per cui il riconoscimento ha un significato e un posto speciale nel mio cuore. È da lui che ho imparato il significato della ricerca traslazionale e come ogni ricerca di laboratorio possa cambiare la vita dei pazienti. Lui è stato e continua ad essere il mio modello di medico e ricercatore e avrò sempre gratitudine per i suoi insegnamenti. E un grazie speciale devo rivolgere alla mia famiglia, alla mia mamma meravigliosa, alle mie sorelle che mi hanno sempre sostenuto e sono state le mie prime fans, anche se la professione mi ha portato lontana da casa. Un grazie va anche a mio marito, collega e partner nella vita e nel lavoro, che condivide con me la stessa passione per la ricerca».
Lei è calabrese e rappresenta un orgoglio per la nostra terra. Tuttavia, come tanti altri suoi colleghi per fare ricerca ha lasciato da tempo la regione. A tal proposito qual è la situazione in Calabria e in generale nel nostro Paese?
«Sì, io ho lasciato la Calabria e l’Italia, ma è grazie alla formazione che ho ricevuto all’Universita “Magna Graecia”, che sono riuscita a raggiungere questi obiettivi. Il prof. Pierfrancesco Tassone è stato fondamentale nella mia formazione come medico e ricercatore. È stato lui a darmi l’opportunità di iniziare il mio percorso sul mieloma multiplo ed è la persona che ha sempre creduto in me, continuando a sostenermi. L’italia ha tante menti brillanti, dovrebbe solo valorizzarle un po di più ed offrire maggiori opportunità di crescita professionale».
Pensa che un giorno potrebbe tornare a lavorare in Calabria e, soprattutto, cosa si sente di dire ai giovani medici che vogliono intraprendere una carriera simile alla sua?
«Sì, mi farebbe tanto piacere tornare a casa. La Calabria è il luogo dei miei affetti piu cari e dove mi piacerebbe rientrare per contribuire alla formazione di tanti giovani che sognano un futuro importante in questo settore. Proprio a loro vorrei dire di non scoraggiarsi mai e di puntare sempre in alto. Il talento, la perseveranza e l’impegno sono caratteristiche che ci appartengono come calabresi e sono requisiti fondamentali per contribuire alla ricerca traslazionale».
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