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La Boccassini nell'autobiografia: "Difficile legare con Gratteri, si vantava e creava tensione"

Giovanni Falcone, un punto di riferimento ed anche qualcosa di più. Silvio Berlusconi, "l'avversario" di una vita; gli scontri con Gianni De Gennaro, la famiglia sacrificata per seguire le inchieste; i colleghi famosi che non meritano il suo rispetto, da Antonio Di Pietro ("insopportabile, per me, la scena di Di Pietro inginocchiato accanto alla bara» di Saverio Borelli) a Nicola Gratteri ad Antonio Ingroia ai tanti magistrati che «si sono gettati sul filone "paladino o paladina dell’Antimafia", un filone redditizio in termini di carriera e visibilità mediatica"; il Csm, dove albergano «protervia e arroganza».

Sono tanti i filoni che riempiono il libro di memorie di Ilda Boccassini 'La stanza numero 30. Cronache di una vità (Feltrinelli editore). L’ex procuratore aggiunto di Milano, "Ilda la rossa", come viene chiamata dai media, oltre 40 anni in magistratura, dedica molte pagine ed un capitolo a Falcone. «Me ne innamorai», scrive e ripercorre l’ultima giornata passata insieme, in viaggio verso l'aeroporto di Linate, il 13 maggio del 1992 «Avevo scorto tra i capelli di Giovanni una specie di minuscolo verme bianco. Avrei voluto toglierlo, ma la mano si era bloccata: percepivo una strana sensazione di morte che mi turbava profondamente». L'avrebbe rivisto 10 giorni dopo, cadavere, nell’obitorio di Palermo. «Mi avvicinai. Purtroppo - si legge - in quel momento c'erano anche tre colleghi palermitani. Uno di loro venne verso di me, ma lo respinsi con un gesto rabbioso: sapevo che tutti e tre quei colleghi avevano ostacolato Giovanni, vivevo la loro presenza in quella stanza come un insulto alla sua memoria».

E l’opinione di Boccassini sulla magistratura siciliana è tranchant. «Se Cosa nostra in Sicilia ha potuto vivere e prosperare per decenni - scrive - lo si deve anche - non solo, ovviamente, ma anche - all’inerzia di una magistratura pigra, pavida, in alcuni casi collusa». Non spende parole buone neanche per l’ex pm Antonino Di Matteo, che mette nel filone dei "paladini dell’Antimafia", «piccoli miti fugaci, che si sono dissolti come neve al sole».

L’ex magistrato ne ha anche per il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, che «creava tensione con il suo continuo vantarsi di una conoscenza del fenomeno ndrangheta talmente approfondita e a suo dire unica da ricavarne bizzarramente (poiché era il solo a esserne convinto) un senso di superiorità nei nostri confronti». E il Csm? Un organismo assediato dalla «ricerca spasmodica di fette di potere da parte di troppi magistrati, la svendita della propria funzione per pochi spiccioli, un regalo, un favore, una poltrona per sé, una spintarella per un parente». Un «mercimonio» dal quale «non sono esenti le donne». C'è spazio poi per l’altalenante rapporto con Gianni De Gennaro, incrociato più volte da direttore della Dia e capo della Polizia. In un passaggio racconta di essere stata convocata a Roma e rimbottata aspramente nel corso del processo toghe sporche-Sme che aveva tra gli accusati Silvio Berlusconi. "Senza preamboli e con il suo tono ruvido, il capo della polizia mi chiese cosa stessi "combinando a Milano", aggiungendo che in tutti quei mesi aveva faticato a tenere a bada Berlusconi e i suoi, che si era speso per 'evitarmi il peggio».

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