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Vibo, il mondo di mezzo dei D’Amico cerniera tra il boss e la società civile

Il ruolo degli imprenditori nell’inchiesta dei magistrati della Dda di Catanzaro

I fratelli Giuseppe e Antonio D’Amico ripresi dagli investigatori del Ros all’interno della loro azienda

«Abbiamo fatto una scelta che... di una scala... quindi dobbiamo sapere che ognuno ha il proprio gradino... capito». Così parlava l’imprenditore Giuseppe D’Amico, per gli inquirenti la “scala” scelta sarebbe stata l’adesione al clan Mancuso. Con queste parole, scrivono i magistrati della Dda di Catanzaro nel fermo dell’operazione Petrolmafie spa, «inequivocabilmente scolpiva l’appartenenza propria e dell’interlocutore a strutture criminali gerarchicamente organizzate, all’interno delle quali “ognuno ha il proprio gradino”». Proprio sulla figura dei due fratelli Giuseppe e Antonio D’Amico si concentrano gli investigatori. Sarebbero loro a rappresentare quel “mondo di mezzo” capace di mettere in contatto gli affiliati alle cosche vibonesi con il mondo dell’imprenditoria e della politica. Anche nella ristretta cerchia familiare i D’Amico sembrano tenere assieme i due mondi. Il suocero di Giuseppe D’Amico è Francesco D’Angelo detto “Ciccio a’mmaculata” storico esponente del clan di Piscopio. Cugino dei D’Amico è invece Salvatore Solano, presidente della Provincia di Vibo Valentia. Con la fedina penale praticamente immacolata, i fratelli D’Amico avrebbero mantenuto, secondo la Dda, questa doppia veste: ufficialmente imprenditori di successo, in realtà cassaforte del clan Mancuso.

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