La decisione del Governo è diventata un percorso obbligato, ieri mattina, quando la cabina di regia del Ministero della Sanità non è stata in grado di elaborare il report sull’epidemia, che sarebbe stato decisivo per la suddivisione delle aree di rischio, perché da molte Regioni (Calabria compresa) si è registrato un peggioramento nella qualità dei dati trasmessi. Un gioco a perdere, con il crollo della comunicazione non più tempestiva e nemmeno completa.
E siccome il ritardo nell’invio delle informazioni può rendere inefficace il controllo dell’epidemia, la criticità ha finito per accorciare le distanze verso la chiusura.
La rigorosa strategia di Roma ha come obiettivo la mitigazione di quell’indice medio di contagiosità (Rt) che in Calabria è rimasto aggiornato al 25 ottobre con un preoccupante 1,66 ben lontano dalla soglia di sicurezza che è rappresentato da 1. Il tasso che agita il Ministero della Salute è stato costruito, soprattutto, sulla difficile tenuta dei servizi sanitari massacrati da dieci anni di commissariamento.
Una sanità che in Calabria non è in grado di garantire il sacrosanto diritto all’assistenza. Tra riordini e razionalizzazione della spesa, sono stati cancellati ospedali, tagliati posti letto, ridotti medici e infermieri in corsia. Risparmi su risparmi essenzialmente per assicurare poltrone d’oro a manager e commissari indicati dai partiti. Un riordino della rete ospedaliera che avrebbe dovuto far lievitare i livelli di assistenza sanitaria e che ha condannato a morte il sistema salute. In Calabria, insomma, è vietato ammalarsi. E non solo di Covid.
Il Governo ha deciso d’intervenire per impedire l’ulteriore sviluppo esponenziale di una curva del contagio ormai fuori controllo con il rischio elevato di un insostenibile sovraccarico delle aree mediche (sia critiche che non critiche).
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