Un grande accordo regnava tra i capi delle ‘ndrine calabresi. La pax mafiosa doveva servire a inondare di droga tutta l’Italia e, in particolare, la Calabria. Gli stupefacenti arrivavano nella Sibaritide e a farla da padrone sarebbero proprio le cosche locali. Emerge questo dall’operazione Karaburun.
L’inchiesta era stata coordinata da Salvatore Curcio (attuale procuratore capo di Lamezia Terme e all’epoca pm dell’antimafia applicato sulla Sibaritide) e Domenico Guarascio (pm della Dda) che ha firmato l’avviso di conclusione delle indagini insieme al collega Alessandro Riello inviando l’avviso di garanzia a 237 indagati divisi tra italiani e albanesi. Dalle maglie dell’inchiesta emerge anche la geografia con tanto di nomi di chi gestiva la compravendita e lo spaccio di droga per conto delle ‘ndrine coinvolte nel traffico internazionale di stupefacenti.
A Cassano comandava Francesco Abbruzzese “Dentuzzo”, Giovanni Guidi a Corigliano, Antonio Angelo Pelle a San Luca e Roma, Massimo Albanese a Massafra, Franco Pietro a Caserta a Catania, i fratelli Edmond e Alfred Beqiri e Ndue Sokoli erano da supporto nella Sibaritide e Jahi Abdul a San Luca e nel territorio nazionale; Mentre Prine Dobroshi e Arben Velikp aiutavano lo smercio sul territorio nazionale mentre Mareglen Halka e Kaplianaj Fathbard facevano da referenti per Massafra, Catania, Bari e Pordenone.
Ma Karaburun, i cui i reati contestati sarebbero stati commessi tra il 2001 e il 2008, prende il nome dalla regione dell’Albania allora crocevia delle principali rotte spaccio dell’Adriatico doveva servire a mettere in risalto quella che nei primi anni del Duemila doveva essere la “terza ‘ndrina” (albanese) ad agire nella Sibaritide mentre tra Zingari e Forastefano (clan messo in ginocchio tra il 2007 e il 2008 con le operazioni “Omnia” e “Omnia 2”) veniva combattuta una sanguinosa faida.
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