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Il mistero dei quadri del boss di Cosenza: svanite nel nulla 14 opere di Guttuso, Mirò, Dalì

Franco Pino e l'avvocato Vittorio Colosimo

Il “tesoro” del boss esiste davvero. E appare più imponente di quanto si potesse immaginare. È composto da 14 opere d’arte  firmate dai Maestri più importanti del secolo scorso. Opere delle quali Franco Pino, inteso come “occhi di ghiaccio”, padrino storico della ’ndrangheta cosentina, venne in possesso nei primi anni '90.

È il “mammasantissima” a confermarlo attraverso il suo legale di sempre, l’avvocato Vittorio Colosimo, del foro di Catanzaro. «Si tratta di dipinti di grande valore» spiega il penalista «che il mio assistito non ha più rivisto dopo l’inizio della collaborazione con la giustizia. Presenteremo formale denuncia alla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro perché s’indaghi sulla loro fine».

Il dipinto più grande come dimensione era di Renato Guttuso, mentre gli altri, di formato più piccolo, recavano, tra le altre, le sigle inconfondibili di Joan Mirò e Salvador Dalì. Pino ne venne in possesso grazie a un noto imprenditore finito dal punto di vista economico in cattive acque. L’uomo le cedette al capobastone a un prezzo stracciato sebbene pare valessero più di tre miliardi di lire. È lo stesso boss pentito a confermare il valore delle opere sempre per bocca del suo avvocato.

I 14 dipinti erano custoditi in un magazzino segreto di Cosenza e l’ex padrino chiese a una suo vecchio amico di recuperarle visto che aveva cominciato a collaborare con i magistrati. E da quel che si riesce a ricostruire  il recupero delle opere avvenne davvero. Cosa è successo dopo? «Franco Pino» giura l’avvocato Colosimo «non ne è mai tornato in possesso». Chi le prese in consegna? Mistero. Almeno per il momento.

Una cosa è certa: negli atti recuperabili negli uffici giudiziari del distretto di Catanzaro non v’è alcun atto ufficiale di consegna ad autorità dello Stato di quadri di valore. Non c’è un verbale, né una relazione di servizio, niente di niente. Franco Pino, scegliendo di pentirsi, intendeva evidentemente recuperare le opere magari per capitalizzare e non certo per affidarle a un museo. Così, d’altronde, aveva fatto con il libretto al portatore grazie al quale risultava legittimo possessore di 700 milioni di lire. Libretto che gli venne ritualmente restituito con atto formale. Nel caso del “tesoro d’arte” invece qualcosa deve essere andata storta. Chi prese in custodia quei dipinti e che fine hanno fatto?

«Sono passati 25 anni» tuona questa volta Vittorio Colosimo «e vogliamo conoscere la verità». Già, ma chi può raccontarla? Alla magistratura il compito di fornire una risposta.

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