I figli “traditori”. Mai nessuno nella ‘ndrangheta avrebbe immaginato che i figli avrebbero rinnegato i padri. Che i rampolli cresciuti a pane e piombo avrebbero vuotato il sacco facendo finire nei guai fratelli, cugini, zii e compari violando l'inviolabile principio dell'omertà mafiosa che da sempre governa le cose della criminalità organizzata calabrese. E invece, negli ultimi anni, è accaduto più volte. Cosche storiche della mafia più potente del Vecchio continente sono entrate in crisi scoprendo che l'erede designato del capobastone stava incredibilmente vuotando il sacco con i magistrati e che le sue “cantate” non risparmiavano neppure l'«augusto» genitore. L'ultimo a lanciarsi tra le braccia dello Stato è Dante Mannolo, discendente maschio di Alfonso Mannolo, personaggio carismatico della ‘ndrina di San Leonardo di Cutro. Finito dietro le sbarre, il figlio del temuto e rispettato “don Alfonso” non ha esitato a rompere la consegna del silenzio e raccontare tutto quello che sapeva pur di lasciare quell'inferno di sbarre, cancellate e catene in cui la Dda di Catanzaro, diretta da Nicola Gratteri, l'aveva spedito. Traffici, delitti, estorsioni, rapporti con la politica e persino “aggiustamenti” di processi: Dante ha parlato di tutto con i pm antimafia Paolo Sirleo e Domenico Guarascio. Nessuno, nel “regno” che è stato di Nicolino Grande Aracri, avrebbe immaginato una catastrofe del genere. Prima di lui, a pochi chilometri di distanza, due anni fa, un altro “figlio d'arte” s'era messo a fare l'«infame»: Francesco Farao, figlio del mammasantissima di Cirò Giuseppe Farao, coinvolto nella maxinchiesta “Stige”, non aveva resistito alla puzza di chiuso delle celle carcerarie tuffandosi tra le braccia resistenti e forti dei magistrati antimafia di Catanzaro. Come lui, dall'altra parte della regione, avrebbe fatto, un anno dopo, Emanuele Mancuso, di Limbadi, erede di Pantaleone Mancuso, stella di prima grandezza della criminalità del Vibonese e da tutti conosciuto come “l'ingegnere”. Mai nessuno dei Mancuso aveva “tradito” la famiglia guidata da sempre da “Zi Luigi”, recentemente riarrestato nell'ambito della straordinaria maxindagine “Rinascita-Scott”. Gli ultimi tre “rampolli” canterini sono andati a far compagnia a Giuseppe Giampà, di Lamezia Terme, figlio di Francesco Giampà, inteso come “il professore”, superboss dell'area centrale della Calabria. Giuseppe è pentito ormai da un quinquennio e reo confesso di molti fatti di sangue. A Cosenza, lo scorso anno, ha scelto di collaborare con la giustizia anche il figlio di uno dei capi storici della criminalità nomade: si chiama Celestino Abbruzese e da sempre tutti lo chiamano “micetto”. Suo padre, Fioravante, sta scontando condanne definitive per omicidio. In passato, invece, era stato Pino Scriva, negli anni 80, ad abbandonare il mondo della ‘ndrangheta mettendo da parte la storia della sua famiglia che, invece, nella Piana di Gioia Tauro aveva a lungo contato. Dopo di lui, negli ani 90, era stato Antonio Zagari, figlio del boss di Varese, Giacomo (originario di Rosarno) a svelare ai magistrati della Dda di Milano i segreti delle ‘ndrine in Lombardia. Poi è arrivata pure una donna, Giusy Pesce, diventando la prima pentita di una famiglia mai sfiorata da “collaborazioni” dirette con le toghe.