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Il virus che divide le famiglie: il racconto di una coppia di Vibo che vive a Codogno

Domenico Petrolo, Orsola Dinatolo, Laura Petrolo e Gregorio Moscato col neonato

Vite improvvisamente stravolte: niente più libertà di muoversi, distanze che aumentano, le facce costrette a nascondersi dietro maschere che omologano le persone. Tanto che “uno” diviene prima “nessuno” e poi “centomila”. Il dramma di Codogno, centro del Lodigiano da cui si è diffuso in Italia il coronavirus, è anche quello vissuto da una famiglia di origini calabresi: due insegnanti, un bimbo venuto alla luce appena il sette gennaio scorso, il desiderio di abbracciare i nonni che vivono a Sant'Onofrio, nel Vibonese. Quel bimbo dovrebbe accorciare le distanze, ridare felicità e luce, consentire alla terza ed alla prima età di fondersi in un abbraccio naturale tra passato e futuro, in una sorta di meraviglioso eterno presente. Invece, il virus spezza tutto, piazza barriere e delimita perimetri, isola mamma e papà con il proprio bambino, lascia distanti i nonni, spezza un sogno proprio mentre questi ultimi si apprestavano a raggiungere la prole.

Una storia tra mille altre che spezza il cuore quella di Laura Petrolo e Gregorio Moscato (entrambi docenti) che decidono di raccontare il loro stato d'animo alla Gazzetta del Sud. L'incubo ha una data precisa: «Tutto è cominciato venerdì 21 febbraio - racconta Gregorio -. Appena svegli abbiamo appreso la notizia di un caso positivo di Coronavirus qui a Codogno. Pensavamo alle solite fake-news, poi abbiamo compreso che tutto era maledettamente vero». I coniugi tentano di rispettare la routine. «Ci siamo recati a scuola, ma l'atmosfera era surreale: le notizie rimbalzavano, gente in mascherina all'esterno, mamme che si precipitavano a portare via i figli poiché si era appreso di altri contagi all'interno dell'ospedale». L'apprensione cresce. «I miei genitori sarebbero dovuti arrivare a Codogno il giorno seguente, ma per ovvi motivi non hanno potuto abbracciare il loro nipotino».

L'impulso primario è quello di un ritorno a casa. «Alla fine delle lezioni avevamo deciso di tornare a Sant'Onofrio, naturalmente con l'intenzione di rimanere nel nostro appartamento in quarantena volontaria, avvisando della nostra presenza le autorità competenti«. Poi la frenata «per evitare di compromettere la serenità e la salute di amici e parenti«. Rinuncia che corrisponde con l'inizio di un calvario, il calvario di questi giorni: «Le nostre giornate trascorrono a casa, solo brevi passeggiate in campagne, per fare la spesa e acquistare medicinali». Addirittura, come i detenuti con buona condotta, «lo scorso 28 febbraio la Prefettura ci ha concesso di recarci fuori dalla zona rossa», ma solo «per una visita di controllo al bambino».

Già quel bambino, prima fonte di gioia ed ora di preoccupazione ed ansia quando si apprende «che amici e colleghi sono incappati nell'infezione. La maggior parte sta bene, altri sono in terapia intensiva attaccati ad un respiratore». Dovrebbero farcela. Si spera. In attesa di quei risultati che ancora non arrivano, mentre il numero dei morti in Lombardia e nel Lodigiano aumenta vertiginosamente.

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