‘Ndrangheta al Nord, da Torino all’Emilia i mafiosi calabresi minacciano politica ed economia italiana
Arrembante e famelica. La mafia calabrese si conferma una organizzazione capace d’infiltrare anche regioni della Penisola apparentemente tranquille e lontane. I boss del reggino conquistarono Torino negli anni '70 del secolo scorso, ordinando successivamente l’omicidio del procuratore capo della città piemontese, Bruno Caccia, che impediva loro di corrompere e comandare; negli stessi anni diedero l’assalto a Milano infestandola di droga gestita dai narcotrafficanti di Africo e mettendo in piedi imprese edili, costituite da gente partita da Platì e San Luca, capaci di condizionare il mercato del lavoro; fu la stessa cosa a Como e poi a Varese. A Roma, grazie ai patti stretti con la banda della Magliana misero radici per smerciare droga e organizzare sequestri di persona - il più clamoroso fu quello di Paul Getty junior -. In Liguria, a Genova, Ventimiglia e San Remo, trovarono posto e spazio padrini e azionisti tanto che molti furono nei centri liguri gli omicidi consumati come appendici di faide in quegli anni in corso nella Piana di Gioia Tauro e nella Locride. Quella lontana opera di “colonizzazione” si è nel tempo ampliata ad altre aree del Paese fino a coinvolgere il Veneto, la Valle d’Aosta e l’Emilia Romagna. Oggi, come confermano le inchieste condotte dalle Dda di Reggio Calabria, Catanzaro, Bologna, Torino, Milano, Brescia e Venezia e le relazioni stilate dalla Dia e dalla Dna, i mafiosi calabresi minacciano non solo l’economia italiana ma pure la politica. Nei giorni scorsi si è concluso a Brescia il processo di appello che certifica l’infiltrazioni a Mantova delle cosche crotonesi. I giudici hanno inflitto 20 anni e 8 mesi di carcere al superboss di Cutro, Nicolino Grande Aracri e 17 anni e 8 mesi ad uno dei suoi sodali, Antonio Rocca. Con loro è stato pure giudicato Salvatore Muto, ex malavitoso ora pentito, cui sono stati inflitti 8 anni e 6 mesi. L’uomo è stato stretto collaboratore a Piacenza di Francesco Lamanna, indicato dalla magistratura inquirente come il “referente” in quella città del gruppo Grande Aracri. In Emilia Romagna, proprio nei giorni scorsi, il Servizio centrale operativo della Polizia ha compiuto decine di perquisizioni per far luce sulla cessione sospetta e la presunta intestazione fittizia di alberghi di Rimini a persone di origine calabresi. Le indagini hanno portato gli inquirenti anche ad Amantea, Mendicino e Rende. La magistratura calabrese, nel frattempo, ha chiesto la condanna a 8 anni di reclusione di Franco Gigliotti, imprenditore di successo a Parma. Il manager impegnato nella filiera alimentare meccanica, era socio del Parma Calcio e di altre società sportive di quella provincia. La procura antimafia di Catanzaro lo ritiene legato al potente clan Farao-Marincola di Cirò e gravi accuse nei suoi confronti vengono mosse da Francesco farao, fuiglio pentito dello storico padrino Giuseppe. E sempre in Emilia, per la prima volta nella storia della Repubblica, è stato sciolto per infiltrazioni mafiose un consiglio comunale: quello di Brescello. Non va meglio in Veneto, dove con 33 misure cautelari la Dda di Venezia ha colpito una appendice della ‘ndrangheta dedita all’usura, l’estorsione e il riciclaggio di denaro. Si tratta di un’altra “cellula” delle cosche crotonesi attiva tra Padova e Venezia. Nella morsa della ‘ndrangheta imprenditori importanti costretti a cedere il controllo delle loro aziende. Illuminanti alcune intercettazioni nelle quali una delle vittime si sente dire da un mafioso calabro: «Se non fai quello che ti dico io ti spacco le gambe e la testa. Tu e tua moglie dovete lavorare per me e stare zitti!». Pesantissime le minacce lanciate anche nei confronti del titolare di una concessionaria di auto di lusso padovana finito con il contrarre un debito con i picciotti calabresi per via di un prestito privato ad usura. «Ti squaglio nell’acido, tutti vi ammazzo, hai capito? Tu pensa e spera la Madonna che non ci vediamo mai!». L’uomo è costretto a pagare interessi moratori del 300 per cento. I soldi accumulati nella terra dei doge venivano poi riciclati in Emilia. Come? L’ha spiegato il pentito Giuseppe Giglio. Le somme di denaro venivano versate su conti correnti postali intestati asd aziende controllate dai clan della ’ndrangheta a saldo di fatture per operazioni inesistenti e subito monetizzzate con prelievi con carte postmat negli uffici postali di San Martino in Rio, Carpi, Correggio, Soliero, Mancasale, Reggiolo e Novellara. In Piemonte, a Carmagnola, invece, la scorsa settimana nell’ambito di un’operazione che ha disarticolato una cosca calabrese, è stato ritrovato, in casa di un indagato, un documento con riti, simbologie e “comandamenti” della ‘ndrangheta. Nulla di nuovo sotto il sole se si considera che è in corso a Torino un’inchiesta contro un clan calabrese, riconducibile a Giuseppe Catarisano, insediatosi ad Asti e che era riuscito persino ad infiltrarsi nel glorioso Asti Calcio assumendone il controllo. L’invasione della ’ndrangheta non ha risparmiato, infine, la Valle d’Aosta dove oltre a presunti mafiosi calabresi sono finiti nei guai, nei mesi scorsi, tre esponenti politici: Monica Carcea, assessore del comune di Saint Pierre; il consigliere comunale di Aosta, Nicola Prettico e il consigliere regionale Marco Sorbara, già assessore alle Politiche sociali aostano. Gli ipotizzati rapporti degli esponenti politici con uomini vicini alle cosche individuati dalla Dda di Torino, hanno spinto il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, ad autorizzare l’invio di Commissioni di accesso sia nel comune del capoluogo regionale che in quello di Saint Pierre. Pure sotto le Alpi la mafia calabrese imponeva i suoi diktat a imprese ed esercenti.