Una tracciabilità certificata dei fanghi prodotti dal ciclo di depurazione delle acque reflue. Potrebbe essere questa una soluzione all'incognita rappresentata dalla gestione di quello che è uno scarto di “lavorazione” derivante dalla depurazione delle acque reflue e che costituisce una delle criticità che da decenni caratterizzano il sistema di trattamento in Calabria.
Non sono pochi infatti gli impianti che vanno in affanno proprio per via dell'accumulo dei fanghi, il cui costo di smaltimento incide sulle spese di gestione.
I dati calabresi non sono entusiasmanti, riporta la Gazzetta del Sud in edicola. Appena un mese fa il dipartimento Ambiente della Regione ha invitato i sindaci calabresi a fornire dettagliate informazioni sulla quantità prodotta dagli impianti, la composizione e le caratteristiche, compilando le apposite tabelle.
Quelle stesse tabelle pubblicate sul portale del dipartimento e che, però, non raccontano in maniera esemplare la storia degli ultimi anni, almeno a partire dal 2007. Aprendo lo spazio a scenari inquietanti, poiché diventa lecito chiedersi che fine facciano e da chi (e dove) vengano eventualmente smaltiti i fanghi che non vengono tracciati.
Le caselle di Catanzaro tra il 2007 e il 2010 sono a zero (tra il 2013 e il 2015 del tutto vuote). A Reggio Calabria i dati dei sei depuratori sono indicati a macchia di leopardo e in diversi casi l'ente spiega che i volumi di acqua trattati non sono effettivi. Emblematico il dato relativo a Cosenza tra il 2007 e il 2015: nessuna risposta. Su Crotone i numeri sono altalenanti: si passa da una produzione di fanghi nel 2009 e 2010 fra tremila tonnellate e quasi quattromila, che poi crolla a 562 nel 2011, anno in cui la metà viene avviata a impianti di compostaggio. A Vibo, i dati in tabella dei tre impianti risultano presenti solo nel 2015 (forniti dal Consorzio di sviluppo industriale), con l'invio dei fanghi negli impianti di compostaggio.
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