I boss pentiti. Sono una piccola pattuglia i padrini della ‘ndrangheta che hanno deciso di collaborare con la giustizia. Nella mafia calabrese, infatti, hanno deciso di “cantare” nell’ultimo ventennio solo figure medio basse delle cosche (azionisti ed esattori) e solo raramente dei capibastone. Le “famiglie” claniche - come riporta la Gazzetta del Sud oggi in edicola - sono costituite da soggetti legati in larga parte da rapporti di consanguinità e, dunque, collaborare con i magistrati significherebbe tirare in ballo fratelli, cugini, zii, suoceri e cognati. Ecco perché stupisce e colpisce il pentimento di Giuseppe Costa, che ha raccontato ai magistrati della Procura distrettuale di Reggio Calabria i segreti inconfessabili del suo clan facendo addirittura finire in manette, il più celebre dei suoi fratelli, Tommaso Costa, per un omicidio consumato nella Locride nel 1988. Prima del “mammasantissima” sidernese era stato un altro esponente della ‘ndrangheta reggina a saltare inaspettatamente il fosso lanciandosi tra le braccia dei magistrati inquirenti: Paolo Iannò, potente capolocale di Gallico e fedele braccio destro del superboss Pasquale Condello. Nel 2003, invece, è stato Saverio Mammoliti di Castellace, detto “Saro il playboy”, a dissociarsi da “mamma ‘ndrangheta”. Nel 1995 sono stati i capibastone di Cosenza e Sibari, Franco Pino e Giuseppe Cirillo a intraprendere la strada della collaborazione con la magistratura che non hanno più abbandonato. Ai pochi boss pentiti si sono poi aggiunti, negli ultimi anni, i figli di riveriti mammasantissima. Si tratta di Emanuele Mancuso, figlio di Pantaleone detto “l’ingegnere” di Limbadi; Francesco Farao, figlio di Giuseppe, di Cirò Marina; Giuseppe Giampà, figlio di Francesco, detto “il professore” di Lamezia Terme; e Giuseppina Pesce, figlia di Salvatore, di Rosarno. Hanno accusato genitori e fratelli cambiando i destini di cosche un tempo blindatissime e imperscrutabili.