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In Calabria donne uccise dalla 'ndrangheta in nome dell'"onore" e dell'"ominità"

Francesca Bellocco e il figlio Francesco Barone

La mafia uccide le donne. È in nome della subcultura dell’«ominità» e dell’«onore» che figli e fratelli s’abbeverano del loro stesso sangue, rubando la vita a madri e sorelle. Placano così l’angoscia e il petulare, salvando con la morte delle reiette il “rispetto” e la mafiosità.

A Rosarno, ‘na fimmana può finire sotto terra perché sospettata di coltivare un amore proibito, oppure di sognare una esistenza diversa. In una notte senza luna del 1977, per esempio, due killer ammazzano, a colpi di pistola e fendenti di coltello, Maria Rosa Bellocco, il marito Mario Conte e il loro figlioletto Giampiero, scomodo testimone della mattanza per la quale finirà sott’inchiesta un fratello della donna. L’uomo sarà poi assolto da ogni accusa.

La Bellocco, parente di Francesca, scomparsa per lupara bianca nel 2013 per mano del figlio Francesco Barone condannato proprio ieri all'ergastolo, pare avesse una relazione extraconiugale e “disonorasse” così le consorterie locali.

E sempre nella cittadina del Reggino, nel 1981, scompare per lupara bianca Annunziata Pesce, appartenente all’omonimo “casato” mafioso. La donna, che ha una relazione con un carabiniere (circostanza inaccettabile in certi ambienti) viene rintracciata a Scilla e poi fatta sparire per sempre.

Della sua tragica fine parla la pentita di famiglia, Giuseppina Pesce, indicando tra i congiunti dell'uccisa i responsabili del delitto. Un'accusa rimasta senza riscontro.

Nel marzo del 1994 in un’abitazione di Pegli, a Genova, viene massacrata a colpi di pistola Maria Teresa Gallucci, vedova, 37 anni, originaria di Rosarno. La trentasettenne cade assassinata perché ha una relazione con un concittadino, Francesco Arcuri, a sua volta ammazzato in Calabria con colpi esplosi agli organi genitali. Per il fatto di sangue sarà inizialmente incriminato il giovane figlio della Gallucci poi prosciolto con formula ampia.

Quelli che abbiamo descritto non sono casi isolati. Il 5 ottobre del 1982, a Reggio Calabria, viene assassinata Concettina Labate, della famiglia dei “Ti mangiu”. La donna si sposa con uomo con il quale fa cinque figli. Poi lo lascia e inizia una relazione con un compagno più giovane. Viene richiamata a tenere una condotta più consona alla sua famiglia di origine, ma le non ascolta i “consigli”. Muore a 35 anni, ammazzata in pieno centro in riva allo Stretto.

A Palmi, invece, il 25 febbraio del 1986 vengono ammazzati, da quattro killer armati di pistole, Luciana Arcuri, moglie di un detenuto al momento del fatto in carcere per scontare una condanna per omicidio (nell’ambito della faida tra i Gallico e i Condello) e il suo amante Ferdinando Fagà. Per il duplice omicidio saranno inizialmente sospettati i fratelli del marito detenuto che otterranno poi una piena assoluzione. Non erano stati loro.

A Reggio Calabria, nell'aprile del 1987,  viene assassinata Francesca Familiari, conduce una vita “dissoluta”, ha una relazione con un uomo di origine rom e vive a Brescia. Il suo comportamento disonora la famiglia di origine: il padre Vincenzo, boss di Montebello Ionico, e il fratello, sono stati ammazzati alcuni anni prima. La donna viene trucidata dal fratello Stanislao, che rende piena confessione.

Il 4 maggio del 1988, a Cirò, Giuseppina Stricagnolo, moglie di un uomo di rispetto della zona, viene prelevata con un’autovettura e trasferita in località Favara dove cade poi assassinata con quattro colpi di pistola alla testa. La vittima, secondo alcuni pentiti, aveva una relazione extraconiugale.

Nel 1991, a Paterno Calabro, svanisce nel nulla Anna Maria Cozza, impiegata in una impresa di pulizie di Cosenza ed ex moglie d'un boss locale. La donna, ingoiata dalla “lupara bianca”, s’era separata dal marito cominciando una relazione con un carpentiere della zona, Gianfranco Fucci, che viene assassinato un anno prima di lei.

Il 16 marzo del 1994 scompare a Reggio Calabria Angela Costantino, moglie di Pietro Logiudice, fratello del capocosca Nino. La donna tradiva il marito, che al momento della sparizione era in prigione. Il suo corpo non verrà mai ritrovato.

La condizione femminile nel mondo della 'ndrangheta è drammaticamente condizionata da un maschilismo debordante e arcaico. E in certi luoghi della Calabria è persino “sconsigliata” l’ostentazione del lutto in ricordo delle donne “giustiziate” in nome dell’«ominità» e dell'«onore». Esse, infatti, sono condannate a una “damnatio memoriae” mafiosa.

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