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Quattro colpi in testa per eseguire la "sentenza"

Quattro colpi in testa per eseguire la "sentenza"

Gli hanno sparato in testa, quattro colpi esplosi da due fucili a pallettoni. Non volevano correre il rischio di sbagliare i due killer che hanno ucciso, sabato scorso, Giuseppe Fabio Gioffrè. Per questo motivo hanno mirato alla testa: un’azione rapida, un’esecuzione in piena regola. Il 39enne di Seminara non ha avuto scampo morendo sul colpo. Gli assassini potevano avere sulla coscienza anche un bambino di 10 anni, ferito all’addome e al fianco, ma che adesso non sarebbe in pericolo di vita. Il piccolo, nella giornata di oggi, lascerà il reparto di rianimazione del Grande ospedale metropolitano di Reggio Calabria per quello di chirurgia toracica. La presenza di quel bambino potrebbe rappresentare una falla nel piano dei due killer. Potrebbe averli visti e quindi riconoscerli, sempre che abbiano agito con il volto scoperto. La sua vita e quella dei suoi familiari – una coppia di nazionalità bulgara amici di famiglia di Gioffrè – potrebbe essere in pericolo. Così il questore Raffaele Grassi, a conclusione della riunione del Comitato provinciale per l’ordine pubblico subito convocata dal prefetto Michele di Bari, ha deciso di mettere sotto protezione il bambino e la sua famiglia.

In mano all’Antimafia

Le indagini, come ha avuto modo di confermare il procuratore capo di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri, nelle ore successive al delitto, sono già in mano alla Dda, che sta coordinando l’inchiesta dei Carabinieri del Gruppo Gioia Tauro e della Compagnia di Palmi. Il contesto nel quale è maturato l’omicidio di Giuseppe Fabio Gioffrè, così pensano gli inquirenti, è quello della criminalità organizzata. L’assunzione dell’inchiesta da parte dell’Antimafia va proprio in questa direzione. Secondo quanto appreso nella giornata di ieri, però, gli investigatori al momento non temono una recrudescenza nello scontro tra i clan seminaresi. A scopo precauzione comunque, la Questura ha intensificato i servizi di controllo a Seminara, una presenza più visibile di divise che serva anche da deterrente. È stato già convocato, inoltre, un’ulteriore seduta del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza, nel corso del quale verrà approfondita la vicenda. Una vicenda trattata con la massima attenzione da parte di forze di polizia e magistratura. I due killer, infatti, non si sono fermati neanche davanti alla presenza di un bambino per portare a compimento il loro piano, nonostante il pericolo concreto di potere uccidere anche un ragazzino di soli 10 anni.

L’esecuzione

Sembra confermata la prima ricostruzione dei fatti operata dai Carabinieri della compagnia di Palmi. I due uomini hanno usato dei fucili a pallettoni, sparando quattro colpi. Si sarebbero mossi a piedi e avrebbero lasciato la scena del crimine fuggendo nelle campagne circostanti al luogo dell’agguato. La sparatoria è avvenuta in contrada “Santa Venere”, una zona agricola di Seminara dove Giuseppe Fabio Gioffrè aveva un terreno di sua proprietà, nel quale il 39enne custodiva dei maiali. E proprio per dare da mangiare agli animali Gioffrè e il bambino, figlio di una coppia di amici, si sarebbero recati in contrada Monte Venere prima dell’ora di pranzo.

Con ogni probabilità i killer conoscevano le abitudini di Gioffrè e quella zona agricola isolata è ideale per portare a termine un agguato senza essere visti. Una missione eseguita esplodendo quattro colpi di fucile caricato a pallettoni in testa, l’ultimo dei quali da distanza ravvicinata.

Il clan degli ‘ndoli

Fabio Giuseppe Gioffrè era già noto alle forze di polizia e alla magistratura. Non poteva essere considerato un boss, ma era figlio di uno dei pezzi da novanta della cosca Gioffrè degli “’ndoli”, Vincenzo Giuseppe detto “Siberia”, scampato a un agguato nel 2008, mentre a Seminara infuriava la faida contro i Caia-Gioffrè detti “’ngrisi”. La vittima era anche nipote del boss (deceduto qualche anno fa) Rocco “u ‘ndolu”. Gioffrè era rimasto coinvolto nel maxiprocesso istruito dalla Dda di Reggio Calabria denominato “Artemisia”. Era accusato di associazione mafiosa, ma dopo la condanna in primo grado era stato assolto in appello. Negli ultimi anni era stato arrestato per abigeato e occultamento di armi rinvenute dai militari della Compagnia di Palmi in un capannone della sua proprietà, dove è stato ucciso.

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