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Negato il risarcimento alla sorella di Lea Garofalo

Negato il risarcimento alla sorella di Lea Garofalo

Negato il risarcimento a Marisa Garofalo, sorella di Lea, la testimone di giustizia della frazione Pagliarelle, uccisa e poi bruciata a Milano il 24 novembre 2009. Quando i giudici di Milano hanno condannato gli assassini di Lea Garofalo, tra cui il suo ex compagno Carlo Cosco, avevano anche stabilito un risarcimento di 50mila euro per la sorella Marisa e di 25 mila euro per la mamma Santina Miletta, che nel frattempo era morta per il grande dolore. Le due donne, difatti, si erano costituite parti civili, assistite dall’avvocato fiorentino Roberto D’Ippolito.

Dopo che la sentenza era diventata definitiva, Marisa aveva chiesto al Ministero dell’Interno quel risarcimento previsto per le vittime di mafia. E benché la legge prevedesse una risposta entro sessanta giorni, di fatto, invece, sono trascorsi due anni e mezzo fino a quando, qualche giorno fa, la Prefettura di Crotone ha emesso il suo verdetto: «Il comitato ha espresso l’avviso di non accogliere la domanda», in quanto la donna «non risulta essere del tutto estranea ad ambienti e rapporti delinquenziali».

La stessa Prefettura cita un rapporto del Comando provinciale dei carabinieri, che parla di parentele con «elementi appartenuti in vita alla consorteria mafiosa di Petilia Policastro». Il riferimento è al padre Antonio ed al fratello Floriano, detto Fifì, uccisi più di dieci anni fa nella faida fra due famiglie locali, il primo nella notte di Capodanno del 1975 ed il secondo a giugno del 2005.

A supporto di questo diniego ci sarebbero anche alcune intercettazioni di conversazioni che si sarebbero svolte tra Marisa Garofalo ed un esponente della ’ndrangheta locale «onde propiziare il ritorno di Lea nel borgo natìo, al riparo da eventuali ritorsioni»; la conclusione è che «la famiglia originaria di Marisa Garofalo è sempre stata contigua alla criminalità organizzata di Petilia Policastro e aree limitrofe». La «richiesta di permesso» della sorella e della madre, se davvero ci fu, dice l’avvocato D’Ippolito, dimostra esattamente il contrario di quello che teorizzano i carabinieri. Appare piuttosto il sintomo sia della condizione di sudditanza rispetto a coloro ai quali si chiedeva il “permesso”, sia della condizione di intimidazione rispetto a Carlo Cosco e sodali, dai quali Lea Garofalo temeva reazioni proprio per la posizione antimafia dalla stessa assunta. Timori che i drammatici eventi successivi avrebbero dimostrato essere tutt’altro che immaginari”. «Quel passato – dice Marisa Garofalo – io e Lea lo abbiamo subìto e Lea non voleva che il suo compagno, padre di Denise, potesse fare la stessa fine del padre». Le due sorelle, anche se cresciute in un ambiente criminale, avevano però deciso di ribellarsi a quelle regole, tanto che Lea e sua figlia, non volendo continuare a vivere respirando quell’aria, si erano allontanate ed erano entrate in un programma di protezione.

Rispetto a tutto questo oggi Marisa Garofalo non abbassa la testa. Lo testimonia soprattutto l’impegno continuo che sta portando avanti contro la ‘ndrangheta nelle piazze e nelle scuole di tutta Italia.

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