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" Le donne? Non le ho uccise io. Ero al bar, mi hanno visto tutti"

" Le donne? Non le ho ucciso io. Ero la bar, mi hanno visto tutti"

In una domenica d’ottobre di due anni fa, le porte dell’inferno si spalancarono improvvisamente sulla terra. Un killer entro nel piccolo cimitero di San Lorenzo del Vallo e cominciò a sparare contro due donne. Edda Costabile e Ida Maria Attanasio furono travolte da una valanga di colpi di pistola calibro 9. Lo scenario ipotizzato dal capo dei pm di Castrovillari, Eugenio Facciolla, per la strage è uno e uno solo: la vendetta familiare. Quell’uomo che seminò morte e terrore sarebbe stato Luigi Galizia, 37 anni, fratello di Damiano, ucciso sei mesi prima a Rende, da Franco Attanasio, figlio e fratello delle vittime. Per sei mesi avrebbe vissuto con quell’idea nella testa. Prima o poi l’avrebbe fatto. Avrebbe colpito gli affetti dell’assassino di suo fratello Damiano. Avrebbe atteso solo l’occasione per farlo. E l’occasione gli sarebbe capitata la mattina del 30 ottobre, l’ultima domenica di ottobre. La trama della strage delle donne è condensata in pochi minuti e tanti sospetti che sarebbero diventati certezze nelle carte delle pm Giuliana Rana e Valentina Draetta. Ma lui, l’imputato, si è difeso, rivivendo le scansioni di quella mattina davanti ai giudici della Corte d’assise (presidente: Giovanni Garofalo). Il suo racconto segue coordinate diverse da quelle fissate dagli inquirenti: «Quella mattina andai al bar, sorseggiai un caffè, e andai al cimitero a pregare sulla tomba di mio fratello. Poi tornai al bar per giocare a carte con un amico. Nella saletta c’erano altre persone e c’era pure mio padre». Luigi Galizia (che è difeso dagli avvocati Cesare Badolato e Francesco Boccia) prova a scagionarsi, fornendo una lista testi per demolire le prove che lo hanno inchiodato al ruolo di presunto killer. I pm pensavano a lui sin dai primi passi di questa inchiesta. Ma lui prova a resistere, tentando di fornire la chiave di lettura di una fuga dal mondo rimasta un mistero. Giorni passati alla macchia, irreperibile da quella domenica, dopo aver abbandonato l’auto nel parcheggio del Santuario della vicina Spezzano Albanese e spento il telefonino cellulare. Invisibile per sei giorni. I poliziotti della Mobile e i carabinieri del Reparto provinciale provarono a fiutare inutilmente le sue tracce. Poi, improvvisamente, nella notte tra il 5 e il 6 novembre, il ritorno alla luce nella Stazione dei carabinieri di Spezzano. In aula ha provato a spiegare le ragioni di quella fuga, a indicare il luogo del suo soggiorno ma non ha convinto nessuno. «La notizia di quello che accadde nel cimitero giunse in fretta al bar. Ho sbagliato, fuggii e mi nascosi per paura. Da giorni mi sentivo braccato. Non feci denuncia, però. Rimasi chiuso in casa di un compare. Poi, tornai a casa e mio padre mi disse che mi cercavano i carabinieri e lì andai». Infine, il racconto di un’amicizia, quella con gli Attanasio. «Le nostre famiglie erano legate. E anche mio fratello con Francolino erano molto amici. Sono sicuro che non è stato lui da solo ad uccidere Damiano. È vero, Attanasio aveva ottenuto un prestito da mio fratello. Diciassettemila euro: «Un debito che è rimasto». 

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