Matteo “u siccu”. Così chiamano dalle parti di Castelvetrano Matteo Messina Denaro, il più pericoloso e ricercato latitante europeo. In questi annni la magistratura inquirente palermitana ha fatto il vuoto intorno al superboss che deve scontare una serie di condanne all’ergastolo. Messina Denaro, infatti, è stato ritenuto corresponsabile della stagione delle stragi decisa dalla “cupola” di Cosa nostra che, tra il 1992 e l’anno successivo, gettò prima la Sicilia e poi l’Italia intera nel caos. La “primula” condivideva il folle piano di Totò Riina, Leoluca Bagarella, Filippo e Giuseppe Graviano che intendevano a suon di bombe e morti – emulando il colombiano Pablo Escobar Gaviria – ricattare lo Stato. La sentenza del maxiprocesso di Palermo era diventata definitiva e tutta la direzione strategica della mafia isolana si ritrovava sul groppone una condanna al carcere a vita.
Matteo Messina Denaro, che compì i primi sopralluoghi attivati per far fuori il conduttore televisivo Maurio Costanzo, è l’unico del gruppo di vertice ad essere scampato alla galera. Dal 1993 è un ricercato imprendibile. Gli investigatori italiani così come i pubblici ministeri palermitani che gli danno la caccia, sono convinti che non si trovi più nella terra di origine. Tutte le persone che potevano aiutarlo sono finite nei guai, tutti i patrimoni di cui poteva disporre sono stati sequestrati, tutte le possibili vie di fuga sbarrate. “U siccu” probabilmente ha cambiato aria. Rifugiandosi in zone meno battute. E nessuno può escludere che possa essere nascosto in Calabria. Oppure che sia passato dalla Calabria. Il Servizio centrale della Polizia di Stato lo cerca da tempo anche tra Il Pollino, l’Aspromonte e la Sila per una serie di ragioni, l’ultima delle quali è strettamente legata alle dichiarazioni rilasciate da un collaboratore di giustizia di Cosenza. Si chiama Luigi Paternuosto, ha 42 anni, e nel maggio del 2011 ha raccontato all’allora procuratore aggiunto antimafia di Catanzaro, Giuseppe Borrelli, una strana storia. Disse di aver appreso nel 2001 di rapporti esistenti tra il boss cosentino Domenico Cicero (ergastolano) e Salvatore Riina. Rapporti nati in carcere dove il “capo dei capi” era stato visto «poggiare un braccio sulla spalla di Cicero» in segno di considerazione e fiducia. Poi aggiunse: «Qualche tempo dopo notai, all’esterno della pizzeria dove lavoravo, delle persone che non conoscevo e che riuscii a intravedere solo di profilo. Vidi questi due parlare con persone legate a Cicero le quali, quando andarono via, mi confidarono che si trattava di due emissari di Salvatore Riina e Matteo Messina Denaro che, in considerazione dei buoni rapporti, erano venuti per comprare degli appartamenti. So che questo affare andò in porto ma non so indicare quali siano questi appartamenti». Nel dicembre del 2013 i poliziotti delle squadre mobili di Palermo e Trapani eseguirono delle perquisizioni alle porte del capoluogo bruzio. Cercavano il “mammasantissima” siciliano ma non ebbero fortuna. Il Cosentino è da decenni considerato un posto “tranquillo” dove nascondere i latitanti. Molti “uccel di bosco” di ’ndrangheta e camorra sono stati scovati, negli ultimi due decenni, nell’area settentrionale della Calabria. E pure i siciliani, in un certo periodo, avevano pensato di nascondersi in terra bruzia proprio in ragione di antichi legami criminali. A Totò “u curtu” – il “capo dei capi” – per esempio la Calabria piaceva così tanto che nel 1990 aveva deciso di trascorrevi un periodo di vacanza. Filippo Graviano, suo fedele luogotenente e padrone di Brancaccio, pensava di trovargli un comodo rifugio in Sila. Racconta Dario Notargiacomo, killer cosentino oggi pentito: «Giuseppe Graviano ci chiese la disponibilità di un alloggio in Sila da destinare alla latitanza di Totò Riina». Notargiacomo cercò e trovò il posto adatto – una villetta – ma poi non se ne fece nulla. Riina preferì restare in Sicilia. Sapeva di avere le giuste coperture per sfuggire all’arresto. Altri tempi...
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