«Una sentenza da riformare» perché secondo la Procura distrettuale di Catanzaro i Mancuso di Limbadi sono una famiglia di ’ndrangheta che ha costruito il suo potere facendo leva sulla forza intimidatrice. Porta la firma del procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri, dell’aggiunto Marisa Manzini e del sostituto Annamaria Frustaci il ricorso avverso la sentenza del Tribunale di Vibo Valentia emessa il 17 febbraio 2017 dopo nove giorni di camera di consiglio. Un verdetto con il quale, a sorpresa, è stata cancellata l’associazione mafiosa a carico di capi e gregari della cosca Mancuso, che i rapporti della Commissione parlamentare antimafia indicano tra le organizzazioni più potenti e pericolose della ’ndrangheta.
Il ricorso d’appello che i magistrati della Dda hanno depositato alla cancelleria penale presso il Tribunale di Vibo Valentia, punta soprattutto a riaffermare non solo il principio della caratura criminale del gruppo ma soprattutto l’esistenza dell’associazione mafiosa, tra l’altro riconosciuta da sentenze passate in giudicato nei procedimenti Dinasty Affari di famiglia ed Odissea.
Durissimo il giudizio dei firmatari del ricorso nei confronti del collegio giudicante che ha ritenuto insufficiente l’impalcatura probatoria portata avanti nel corso del processo andato avanti per circa tre anni nell’aula bunker del nuovo palazzo di giustizia di Vibo Valentia.
Secondo i giudici Vincenza Papagno, Giovanna Taricco e Pia Sordetti nell’arco temporale 2003-2013 i Mancuso non avrebbero agito con i crismi della cosca, bensì ogni loro azione sarebbe da ricondurre a singole condotte criminali fuori dalla logica dell’associazione mafiosa. Ritenendo, inoltre, che l’arco temporale in questione sia stato caratterizzato da un «vuoto investigativo».
Nei motivi d’appello, invece, i rilievi che i magistrati muovono al collegio giudicante sono piuttosto pesanti perché ravvisano «una erronea interpretazione delle legge penale in relazione alla configurazione dell’art. 416 bis c.p. poiché le evidenze procedimentali confermano la presenza ed operatività dell’associazione mafiosa Mancuso». Contestano, inoltre, «l’omessa valutazione di prove acquisite; nonché l’erroneo, incongruo e inadeguato apprezzamento dei fatti, con conseguente scorretta ricostruzione del percorso argomentativo, in violazione dei principi giurisprudenziali in materia e l’erronea valutazione della prova dichiarativa».
Secondo quanto evidenziato dal procuratore Nicola Gratteria, dall’aggiunto Marisa Manzini e dal sostituto Annamaria Frustaci, «la considerazione dello sfruttamento del potere intimidatorio vale a tutti gli effetti quale indicatore esaustivo della continuità del sodalizio, e quindi sulla persistente mafiosità degli imputati».
Nei motivi d’appello, inoltre, viene rilanciata la tesi d’accusa di usura ed estorsione a carico di Giovanni Mancuso e Antonio Mancuso ai danni dei coniugi Grasso e Franze.
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