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Il rampollo di 'ndrangheta che fa tremare le cosche calabresi in Piemonte

Il rampollo di 'ndrangheta che fa tremare le cosche calabresi in Piemonte

Il rampollo “infame”. “Micu Mcdonald” – al secolo Domenico Agresta, 28 anni – è il nipote di Pasqualino Marando, uno dei più grandi narcotrafficanti italiani scomparso per lupara bianca nel 2001. Partì da Volpiano per un viaggio verso la terra d’origine – Platì – e non vi fece più ritorno. Era zio del ventottenne pure Francesco “Ciccio” Marando, capo dell’omonimo clan assassinato nel giugno 1996, a Chianocco, in Val di Susa. Il padre di “Micu”, invece, è Saverio Agresta, ritenuto dalla Dda di Torino un personaggio di primo piano della ’ndrangheta, un uomo temuto e rispettato da tutti. Cresciuto a pane e omertà, il giovane collaboratore di giustizia, nipote e figlio d’arte, frutto dell’amore tra una Marando e un Agresta, sembrava dunque destinato ad una “carriera” significativa nella mafia calabrese. Le premesse, d’altronde, c’erano tutte: non ancora ventenne, infatti, Domenico Agresta ha assassinato a colpi di pistola, il 16 ottobre del 2008, a Courgné (Torino), Giuseppe Trapasso un piastrellista di origini meridionali. E il fatto gli è costato una condanna definitiva a trent’anni di carcere. Eppure la zia, Maria Stefanelli, pentita di ’ndrangheta e vedova dello zio “Ciccio”, nelle sue confessioni lo ricorda quasi con tenerezza: «non mi capacito che Domenico sia ora in carcere a scontare una pena per omicidio. Penso al bambino di ieri e all’assassino di oggi. Mi sembra impossibile».

 La donna, insieme con il defunto marito, era stata a lungo ospite di Anna Marando, madre di “Micu Mcdonald”, riservando al futuro killer e odierno pentito molte attenzioni quando era ancora bambino.
In certe famiglie, però, alcune strade appaiono obbligate. E l’hanno spiegato in più occasioni la stessa Stefanelli e un altro zio per parte materna, Rocco Marando, pure lui nato mafioso di razza ma finito prima di Maria e del giovane “Micu”, tra le braccia salvifiche dei magistrati antimafia. Il percorso è lineare quanto scontato. E lo indica proprio il ventottenne rampollo degli Agresta-Marando ai pm antimafia di Torino e Milano il 22 novembre scorso: «in tutta la mia vita ho sempre respirato una serie di insegnamenti e valori che erano quelli della ’ndrangheta. Tutti i miei familiari sono ’ndranghetisti: mi riferisco non solo agli Agresta, ma anche ai Marando, ovvero i miei zii. Ho ricevuto molte “doti” dopo essere stato arrestato. Il fatto che le abbia ricevute anche di grado elevato, era “meritato” non solo per il nome della mia famiglia ma anche perché avevo commesso un omicidio. Secondo le regole della “società” un affiliato detenuto se viene condannato per reati gravi e si “comporta bene”, nel senso che si fa la sua galera senza fare i nomi di nessuno, viene premiato con il conferimento di doti». Scegliere di collaborare con la giustizia, fare i nomi dei presunti autori dell’omicidio del procuratore capo di Torino, Bruno Caccia, avvenuto nel giugno del 1983, non dev’essere stato facile per “Micu Mcdonald”. 

 È lui stesso a svelarlo ai magistrati inquirenti parlando della madre. «Mia madre è attaccata ai suoi fratelli, è stereotipata dalle regole della ’ndrangheta. Se si trasgrediscono le regole della ’ndrangheta non c’è affetto che conti. Questo vale anche per mia madre. So che lei non condividerà la mia scelta e non mi vorrà più come figlio. Sono sicuro che nessuno dei miei familiari accetterà la mia scelta. Sono consapevole che questo percorso lo farò da solo. Le mie sorelle sono pure vittime di questo sistema. Sono nate e cresciute in quel mondo ed è come se fossero in carcere» Il pentito racconta che per sposarsi «non avrebbero potuto scegliere chi volevano loro. Mi spiego: i pretendenti venivano da me, quando scendevo in Calabria, a dirmi che erano interessati. Ciò perché non potevano contattare direttamente le mie sorelle. Poi, tra i pretendenti, mio padre decideva le persone che potevano andare bene. A questo punto, tra queste persone, le mie sorelle potevano scegliere». Di quel mondo Domenico Agresta aveva le tasche piene. E ha sbattuto la porta in faccia a tutti: parenti, amici e “amici degli amici”.

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