
Le analogie mafiose. Il metodo del “tavolino” di cui parlò in Sicilia, alla fine degli anni 90, il “ministro dei lavori pubblici” di Cosa nostra, Angelo Siino, lo ritroviamo bello e apparecchiato in Calabria nel Terzo millennio. Gli appalti più importanti – scoprono le Dda di Reggio e Catanzaro – vengono decisi a “tavolino” sempre dalle medesime imprese sponsorizzate dalle cosche della ’ndrangheta. Imprese che preordinano la misura delle offerte da proporre alle pubbliche amministrazioni in modo da spartirsi, provincia per provincia, i lavori più rilevanti. L’azienda “Bagalà” per conto del casato Piromalli di Gioia Tauro; quella “Barbieri” in nome del padrino Franco Muto di Cetraro.
I procuratori Nicola Gratteri e Federico Cafiero de Raho cristallizzano un quadro finalmente più chiaro dei collegamenti esistenti tra i “sistemi criminali” complessi operanti nelle diverse aree della regione. Dimostrano che occorre seguire il denaro (come diceva Falcone) e vedere dove s’impasta il cemento (come sosteneva Sciascia) per capire il funzionamento delle dinamiche mafiose. E non solo. La tecnica investigativa è utile per comprendere anche le mosse future delle cosche imprenditrici. Già, perché dalle carte emerge l’intenzione di spostare il “tavolino” pure nella Città Eterna dove non c’è più “Mafia Capitale” di Carminati e Buzzi a dettare legge. Giorgio Morabito, punto d’unione tra il Reggino e il Cosentino, spiega al braccio destro dell’imprenditore Giorgio Barbieri, testa di ponte economica di Muto: «Si lavora in ottimo modo là e la Calabria è vicina a Roma …anzi attaccata…... facciamo cose belle là… mettiamo la camicetta, sono più diplomatici e là vogliono tutto prima... Contrariamente a quanto accade in Calabria, dove bisogna mettere in conto che, nel momento in cui ci si “siede” (quando cioè si prende l’appalto n.d.r.), si devono effettuare le dazioni di denaro, e soprattutto bisogna farle sin da subito, in modo da non avere ritardi successivamente, nei pagamenti degli stati di avanzamento lavori”.
Ungendo di banconote i dirigenti pubblici e qualche politico, boss e imprenditori possono, insomma, riempirsi le tasche pure in altre regioni. La ’ndrangheta è sempre stata brava in questo. Basta rileggere il rapporto scritto dal questore di Reggio, Emilio Santillo, quando vennero avviati i lavori di costruzione dell’autostrada Salerno-Reggio, per capire quanto la storia vichiniamente si ripeta. Oppure riguardare cosa scrisse il giudice istruttore che spedì a giudizio, nel 1979, sessanta tra boss e picciotti impegnati a spartirsi mazzette e lavori in occasione della scelta governativa di industrializzare la Piana di Gioia Tauro. Quelli furono i primi capolavori di “ingengneria criminale” ideati dai padrini calabresi. Ciascuno ebbe una quota-parte, tutti furono d’accordo. In quegli anni nacque la “mafia imprenditrice” che oggi rincontriamo più matura e più raffinata.
Caricamento commenti
Commenta la notizia