Nella Rende che da qualche settimana butta fumi come un vulcano la malavita ha deciso di sfidare lo Stato. Lo ha fatto in una notte umida d’aprile, dando fuoco all’auto di un carabiniere dinamico e troppo intraprendente, un detective pluridecorato del Norm della Compagnia che in questi anni ha collezionato lodi ed encomi per la sua attività di servizio. Quella vettura parcheggiata in via Puccini è diventata in fretta un ammasso di ferraglia incandescente arroventata dalle fiamme che hanno lasciato pochi sospetti. Si tratta di fiamme di origine dolosa, testimoniate dal rinvenimento della tanica utilizzata per trasportare il liquido infiammabile servito a scatenare l’inferno. Sul posto sono subito arrivati i vigili del fuoco e i colleghi dell’investigatore per cominciare a indagare. La pista privilegiata non è quella che puzza di mafia, perchè a Rende non c’è solo la mafia col dente avvelenato. Una criminalità organizzata ferita e scossa dal recente terremoto giudiziario che ha attraversato pure le stanze del potere, scoperchiando un presunto “sistema” consolidato, ampiamente descritto nelle carte dell’inchiesta del procuratore aggiunto antimafia, Vincenzo Luberto, e il pm Pierpaolo Bruni. I boss usciti sconfitti vogliono vendicarsi. Ma, probabilmente, non sono solo loro a voler mettere paura alle istituzioni, a voler rivendicare un primato che, evidentemente, non possono vantare più, almeno in queste condizioni. C’è anche chi galleggia ai margini della galassia mafiosa, che non ama quei controlli sul territorio perchè limitano la capacità d’infiltrarsi per contaminare la società civile. Sono balordi, manovali della criminalità che sopravvivono con la droga, i furti e le rapine. E i carabinieri che fiutano le scie dei miasmi maleodoranti del sottobosco della mala che non è diventata ancora mafia, sono considerati dei nemici. Così fermenta quell’odio verso la “divisa”, che è, soprattutto, odio verso lo Stato delle regole.
Uno Stato che sta riappropriandosi di questa porzione di Calabria, dove si respira un’aria nuova, migliore, grazie al lavoro in sinergia tra l’Arma e la magistratura. Un’azione violenta che ha provocato danni strutturali ai mafiosi. In questo modo cresce, di giorno in giorno, il malumore dei padrini e dei malacarne. E con il malumore cresce l’insofferenza verso questa cultura della legalità. Senza contare, poi, che ci sono investigatori troppo zelanti che mettono il naso dappertutto. Così reagiscono, lanciano messaggi, avvertono col fuoco. Vogliono far tornare Rende dove era finita prima che la Dda e la Procura cominciassero a indagare. E più si indaga e più la malavita diventa violenta. L’obiettivo, naturalmente, è quello di fermare il cambiamento, arrestare la bonifica, seminando il terrore. Ma stavolta hanno sbagliato mossa. Il fuoco non spaventerà i carabinieri. la vittima, tra l’altro, tre anni fa aveva già subito un attentato simile. E anche allora l’intimidazione stimolò ulteriormente la curiosità e il fiuto investigativo della vittima. Qui lo Stato non si piega e, soprattutto, non si lascia intimorire da una tanica di benzina e da un cerino acceso. I processi di legalità andranno avanti. Nonostante la violenza della malavita.