La 'ndrangheta ha sempre evitato attacchi frontali alle Istituzioni. Boss e picciotti si sono ben guardati dal colpire uomini che rappresentavano un argine al loro strapotere. È per questo che gli omicidi “eccellenti” compiuti in Calabria sono pochissimi. Apre il tragico elenco l’avvocato generale dello Stato, Francesco Ferlaino, assassinato a Lamezia nel luglio 1975, seguito dal sacrificio di due esponenti politici, ammazzati a distanza di quindici giorni l’uno dall’altro nel giugno del 1980: Giannino Losardo, a Cetraro, e Giuseppe Valarioti, a Rosarno. Poi c’è un altro giudice: Antonino Scopelliti, trucidato nell’agosto del ‘91 a Campo Calabro. Infine, c’è Francesco Fortugno, vicepresidente del Consiglio regionale, ucciso a Locri, nell’ottobre del 2005. Fortugno aveva denunciato anomalie e stranezze che caratterizzavano il mondo della sanità e s’apprestava a svolgere un ruolo istituzionale importante nell’assemblea calabrese. Il suo è stato un omicidio simbolico e rituale, compiuto il giorno delle primarie del centrosinistra per mandare un messaggio di terrore al mondo politico. Dopo dieci anni, ed una sentenza definitiva contro esecutori e mandante, chiediamo alla moglie, Maria Grazia Laganà, già parlamentare e componente della Commissione antimafia, se giustizia è stata fatta. «Io credo che il contesto - risponde l’ex parlamentare - sia stato di tipo politico-mafioso: fu l’allora procuratore nazionale antimafia Grasso a dirlo pubblicamente. Abbiamo ottenuto, pertanto, una verità processuale riferita alla sola parte mafiosa. Manca la zona grigia: se, magari tra 20 anni, dovesse essere individuata avremmo una giustizia totale. Mi ritengo comunque fortunata: altri familiari di vittime di mafia stanno ancora aspettando, mentre la morte di mio marito credo abbia avuto una maggiore attenzione rispetto a casi simili rimasti completamente senza colpevoli. Certo, nella nostra vicenda ha inciso anche la collaborazione di due pentiti». Uno di questi s’è tolto la vita ma lei non ha mai creduto alla tesi del suicidio: perchè? «Bruno Piccolo si uccise il 15 ottobre del 2006 appendendosi ad un piccolo lampadario, troppo piccolo per uno della sua stazza. La morte venne subito archiviata come suicidio ma io chiesi ed ottenni la riapertura delle indagini. Una perizia medica, tuttavia, escludeva gesti diversi da quello autolesionistico. Io non ne sono mai stata convinta». Chi le è stato più vicino dopo il delitto? «Il Presidente della Repubblica Ciampi, il presidente Prodi. La loro vicinanza ha determinato una forte presa di coscienza collettiva rispetto alla gravità di quanto era accaduto. Romano Prodi, il primo ottobre, sarà a Locri in visita alla tomba di mio marito e, poi, terrà una lectio magistralis agli amministratori locali». E’ vero che avevano immaginato di uccidere suo marito prima a Camigliatello e poi davanti alla sede del Consiglio, a Reggio? «Così è emerso dall’inchiesta. A Camigliatello non ebbero il tempo di organizzarsi, a Reggio invece erano pronti ma non ottennero il “permesso” di farlo». Franco Fortugno aveva fatto denunce riguardo al mondo della sanità: di che si trattava? «Aveva segnalato prima come sindacalista e medico poi con interrogazioni da consigliere regionale, le cose che non andavano bene, facendo nomi e cognomi». Perché nel 2005 minacciò di ritirarsi dalla competizione elettorale? «Aveva notato nelle liste qualcuno ch’era passato dal centrodestra al centrosinistra, che sembrava avere possibili problemi di tipo legale e, quindi aveva minacciato di ritirarsi». Onorevole lei da moglie di una vittima di mafia s’è poi ritrovata anche nella veste di imputato come dirigente medico: come ha vissuto questa esperienza? «Ho subito molti attacchi, ma sono sempre rimasta serena. Chi crede nella giustizia sa che, prima o poi, incontrerà un giudice a Berlino. Io non avevo commesso alcun reato, ho rinunciato alla prescrizione e sono stata assolta».