Calabria

Mercoledì 27 Novembre 2024

Patto tra ’ndrangheta e casalesi per governare l’Emilia Romagna

 L’uso deviato dell'emigrazione. E un patto stretto tra le cosche calabresi ed i casalesi. Le ultime inchieste condotte dalle Dda di Catanzaro e Bologna, coordinate dai procuratori Antonio Vincenzo Lombardo e Roberto Alfonso, e l’articolato rapporto stilato dalla Direzione nazionale antimafia diretta da Franco Roberti, fotografano la paciosa Emilia Romagna come una terra scelta dalla criminalità organizzata meridionale per riciclare denaro, vendere droga, e gestire affari legati ad appalti e subappalti. L’invasione apparentemente pacifica cominciata negli anni ‘80 nell’area di Reggio Emilia sfruttando i tanti artigiani partiti dal Crotonese in cerca di fortuna nel mondo dell’edilizia è diventata, nel tempo, una pianificata occupazione di spazi e d’interessi. Una occupazione “benedetta” da Nicolino Grande Aracri, considerato dalla magistratura inquirente uno dei boss più influenti della ‘ndrangheta nel terzo millennio. Un padrino capace di affascinare commercialisti bolognesi in auge, disporre investimenti, gestire attività imprenditoriali, godendo d’un consenso diffuso non solo tra la folta comunità calabrese ma pure tra titolari di aziende emiliane desiderosi di poter contare su capitali freschi e utili protezioni. A segnalare per primo ipotizzate anomalie nelle attività imprenditoriali dei crotonesi era stato, nel 2010, il presidente della Camera di Commercio di Reggio Emilia, Enrico Binni. La ricostruzione susseguita al terremoto registrato nel 2012 ha ulteriormente alimentato la voracità delle aziende emiliane e calabresi felici di lanciarsi nei costosi lavori avviati dalle amministrazioni locali. Per meglio organizzare i loro affari, le cosche nostrane hanno stabilito una sorta di tacito accordo con i clan casalesi evitando conflitti e sovrapposizioni. È stata la Dna a rivelarlo nell’ultimo rapporto stilato e reso pubblico martedì scorso. Le zone a maggior rischio infiltrazione, oltre al capoluogo felsineo, sono il reggiano, il modenese e il mantovano, cui può aggiungersi la Repubblica di San Marino. Tra il 2012 e il 2014, nella sola zona di Reggio Emilia sono stati registrati 40 roghi “sospetti” appiccati a case in costruzione e mezzi meccanici di imprese impegnate in lavori edilizi. E delle infiltrazioni mafiose nostrane nella terra del Lambrusco hanno ampiamente riferito, con dovizia di particolari, i collaboratori di giustizia crotonesi Angelo Cortese e Luigi Bonaventura. Nell’aprile dello scorso anno, l’inchiesta condotta dalla Dda felsinea tra Reggio Emilia e Bologna ha fatto registrare il sequestro di beni per 13 milioni di euro e il coinvolgimento di undici piccoli imprenditori calabresi. Le indagini ruotavano intorno ad una società di autotrasporti con base operativa a Gualtieri, sonnacchiosa cittadina emiliano-romagnola, e sede legale a Isola Capo Rizzuto. Sullo sfondo l’incendio pure di alcuni escavatori, avvenuto nel 2011 in una cava di Castel Maggiore (Bologna). Ma c’è di più. Nel 2009 con l’indagine “Omnia” la magistratura inquirente scoprì che la cosca guidata a Cassano da Antonio Forastefano aveva avviato attività illecite a Forlì, consumando nei confronti di un imprenditore residente nella zona anche una estorsione legata a un debito maturato nel quadro di un rapporto usurario. Un “azionista”del clan, Domenico Falbo, venne in quello stesso periodo arrestato a Forlì dopo un lungo inseguimento e sorpreso in possesso di circa 400.000 euro che aveva sottratto, in Calabria, alla “cassa” della consorteria. Falbo, decise poi di “cantare” raccontando come il suo gruppo si rifornisse stabilmente di munizioni per pistola e fucile da un armiere di San Marino. E proprio nella città del Titano, la Dda di Catanzaro ha smascherato il presunto tentativo del narcotrafficante di San Calogero (Vibo Valentia) Vincenzo Barbieri (poi ucciso nel suo paese di origine il 12 marzo del 2011) di riciclare una montagna di euro attraverso il “Credito Sammarinese”. Per il tramite dell’ex direttore generale dell’istituto di credito, il boss consegnò alla banca (ora in liquidazione) un milione e trecentomila euro. Barbieri era peraltro proprietario di un albergo – il “King Rose” – a Bologna, ora sequestrato.

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