L’esserino rimasto senza nome ha lottato per far vincere la vita. Muoveva le manine e girava lentamente la testa cercando l’aria che non sarebbe mai arrivata. Non voleva morire. Sentiva su di sé gli occhi di due donne e percepiva la voce di un uomo che invece l’ignoravano. Non conosceva i vocaboli, non distingueva le parole ma sentiva ancora l’odore d’una persona che conosceva. Una persona speciale: era la madre, che l’aveva tenuto in grembo ma che adesso voleva sbarazzarsene. Forse, immaginandone il volto, ha tentato persino di vagire implorando una pietà concessagli alla fine solo dalla morte. Quella che vi raccontiamo è la storia di un aborto clandestino e della squallida messa in scena tentata per “capitalizzarlo”. Perché anche la morte nella Calabria oltraggiata dalla violenza deve “fruttare”. Un feto di sette mesi è stato lasciato morire su una barella del pronto soccorso di Corigliano perché la madre potesse (forse) incassare un risarcimento fingendo d’essere rimasta vittima di un incidente stradale. Sullo sfondo l’ombra d’un medico che ha attestato falsamente sulla puerpera traumi inesistenti evitando scientemente, nel contempo, di soccorrere il neonato poi spirato per arresto cardio-circolatorio. Il piano non prevedeva altro: il piccolo senza nome doveva morire. Solo Edgar Allan Poe avrebbe saputo immaginare tanto. E solo la realtà è capace di superare la fantasia. Il gip di Castrovillari, Letizia Benigno, ha ordinato l’assegnazione agli arresti domiciliari di Stefania Russo, 37 anni, la madre; di Nunziatina Falcone, 42, l’amica che l’ha accompagnata in ospedale ad aborto già avvenuto; di Pietro Andrea Zangaro, 33, co-ideatore di questo tragico piano; di Saverio Garasto, 54, il medico responsabile di non aver fatto nulla per salvare il feto e di aver prodotto certificazioni sanitarie fittizie. Il loro arresto è stato chiesto e ottenuto dal procuratore capo di Castrovillari, Franco Giacomantonio e dai pm Vincenzo Quaranta e Simona Rizzo. Le indagini hanno accertato la preparazione del finto incidente grazie a una serie di conversazioni intercorse tra Zangaro, Garasto e la Falcone intercettate in altre indagini; attestato, attraverso le testimonianze rilasciate da un infermiere e da una dottoressa, che il piccolo appena giunto in pronto soccorso era ancora vivo; verificato che non gli venne praticata alcuna azione rianimatoria e neppure tagliato il cordone ombelicale; acclarato, ancora, grazie all’autopsia sul corpicino e all’esame medico-legale compiuto sulla madre, che la donna si era sottoposta ad una pratica abortiva illegale di cui sia lei che il figlioletto recavano traccia. Di più. Nessun segno dei traumi addominali susseguenti al finto incidente (attestati falsamente da Garasto) è stato riscontrato sulla Russo. L’indagata e Nunziatina Falcone arrivarono in ospedale, la sera del 15 maggio 2012, a bordo di un’auto (di proprietà della Falcone) all’interno della quale non venne ritrovata alcuna traccia di sangue riconducibile a un eventuale improvviso aborto e raccontarono del presunto incidente stradale indicando come luogo del sinistro una zona di Corigliano dove non fu poi rinvenuta alcuna traccia credibile del sinistro. “Una piccola bugia – direbbe Henrik Ibsen – raccontata per nasconderne una più grande”. Scrivono i consulenti nominati dai magistrati inquirenti: «L’aborto di Stefania Russo non può ricondursi a trauma addominale da incidente stradale e la causa della espulsione del feto è da ascriversi ad aborto indotto, ovvero ad azione meccanica iatrogena da rapportare a pratica abortiva procurata farmacologicamente o chirurgicamente». Per la Procura i dati tanatologici, i risultati degli accertamenti medico-legali, la contraddittorietà delle dichiarazioni rese dagli indagati, le testimonianze assunte e la falsità della certificazione medica prodotta quella notte non lasciano spazio a dubbi: il contesto è quello di un infanticidio. Gli indagati si protestano innocenti e tali dovranno essere considerati sino alla definizione della vicenda. Il quadro prospettato rimane tuttavia agghiacciante.