L’inferno sibarita. Diviso in bolge abitate da “caporali” e lenoni che gestiscono il mercato (si fa per dire) straniero. Un mondo di prepotenze e ricatti, violenze fisiche e psicologiche, che si alimenta di connivenze, silenzi e colpevoli disattenzioni. L’area che da Sibari conduce sino a Corigliano e Rossano è una delle zone più lussureggianti della Calabria, ricca di agrumeti e pescheti. Una zona florida anche dal punto di vista commerciale ma nella quale gli insediamenti agricoli hanno sempre giocato un ruolo fondamentale. È quaggiù, tuttavia, che lo sfruttamento dei lavoratori stranieri trova particolare sviluppo e concretezza. E se a Rosarno ci sono i “neri” africani a pagare dazio al “caporalato”, nell’area settentrionale ionica della regione compaiono invece i i “bianchi” dell’est europeo: bulgari, romeni e lituani. La miseria è identica, la disperazione sovrapponibile, la “tecnica” di sfruttamento cinicamente uguale. Una giornata di lavoro è retribuita con meno di venti euro, mentre di notte si dorme nelle “cittadelle di cartone” come quella tirata su in contrada “Boscarello” di Corigliano. Cartoni, fogli di compensato, lunghe parti di stoffa impermeabile, cellophane: le “case” degli “schiavi” dei campi sono fatte così. Non sbaglia il sindaco Giuseppe Geraci a pretenderne la demolizione, ad incitare alla bonifica, a sollecitare l’aiuto delle propaggini periferiche del Governo romano. Se c’è il “caporalato” va combattuto e sconfitto, non tollerato con colpevole rassegnazione, né fatto apparire come un’astrusa normalità. Né in ragione d’un solidarismo solo di maniera, si possono tollerare baraccopoli costruite in spregio a un qualsivoglia comune senso di moderna civiltà. Il “caporalato” nella Sibaritide e nel Coriglianese è spesso stato sovrapponibile alla parola “criminalità”: negli anni scorsi le inchieste della magistratura hanno svelato come i “bianchi” siano stati utilizzati per lavori in agricoltura al posto dei “truffatori” che figuravano beneficiari delle indennità di disoccupazione e malattia legate alle giornate lavorative mai svolte. “Truffatori” collocati nel circuito di corresponsione di somme annue di denaro per ordine diretto di boss, picciotti e malavitosi. Erano spesso quest'ultimi ad organizzare l'assunzione fittizia di questa gente in aziende vere o fantasma provocando una paradossale situazione: chi lavorava davvero, cioè gli stranieri, prendeva minacce, mortificazioni e pochi spiccioli, mentre chi neppure sapeva dove si trovassero i terreni da coltivare si pappava l'assegno spedito a casa dagli enti statali di assistenza. Ma non basta. Perchè – come sosteneva Victor Hugo – la guerra peggiore è quella combattuta tra miserabili. La strada statale 106 che attraversa come un serpente d'asfalto tutti i centri costieri della Calabria ionica è pure il più grande bordello all'aperto della regione. Prostitute romene, bulgare e nigeriane (fino a dieci anni addietro erano invece in gran parte albanesi) vendono l'unica merce che hanno – il loro corpo (sic!) - a bavosi automobilisti (vecchi e giovani) in transito. Il problema è tanto grave che, a più riprese, le autorità comunali locali hanno dovuto emettere ordinanze per “multare” i clienti. L’iniziativa di carattere amministrativo promossa nel vano tentativo di arginare il fenomeno non ha tuttavia sortito gli effetti sperati: le “multe” elevate sono state infatti decine ma le “lucciole” non si sono mai mosse dai loro “posti”. Ed a nulla sono valsi i ripetuti blitz delle forze dell’ordine: finita una “retata”, dopo 48 ore, le piazzole della 106 o gli angoli delle strade attraverso le quali vi si accede sono stati subito rioccupati dalle “ragazze”. Il racket del meretricio è gestito dai malavitosi albanesi che si sono imposti sui “rivali” romeni a colpi di pistola e fendenti di coltello. Alle prostitute viene imposta la consegna di una larga parte del denaro incassato e il controllo su queste sfortunate donne è esercitato dagli “ sfruttatori” in modo asfittico. Gli schipetari – come dimostrato da una serie d’indagini condotte dalla Dda di Catanzaro – godono peraltro del favore delle cosche locali della ‘ndrangheta perchè, quando è necessario, forniscono droga e kalashnikov a buon prezzo. In questo senso la Sibaritide è stata da più parti definita un “laboratorio criminale” proprio perché s’incrociano gli interessi della criminalità nomade, della delinquenza albanese e delle cosche tradizionali della ’ndrangheta. Alcuni dei delitti più efferati consumati tra il 1999 e il 2002 nell’area compresa tra Corigliano e Cassano sono stati “firmati” da killer che imbracciavano fucilimitragliatori provenienti dagli arsenali clandestini del Paese delle aquile. Le perizia balistiche eseguirte dai consulenti nominati dalla procura antimafia di Catanzaro hanno dato in questo senso indicazioni univoche
L’inferno tra schiave e “caporali”
Arcangelo Badolati
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