Calabria

Lunedì 12 Maggio 2025

Tragica rapina: una
diabolica messinscena

Per cinque giorni, la storia oscura è rimasta confinata dentro il cadavere di un pensionato. Cinque giorni nei quali un soprammobile a forma di elefantino sporco di sangue e un testimone hanno fatto da bussola alle investigazioni paludose sviluppate in mezzo ai misteri d’un delitto che salda la Calabria alla Lombardia. Intorno a quei pochi elementi s’era sviluppata la trama del giallo di paese. La ricostruzione dell’omicidio di Antonino Faraci sembrava ancorata al racconto ingarbugliato che Melina Aita, 64 anni, di Cetraro, nel Cosentino, aveva reso ai carabinieri. Nella sua descrizione, la vedova aveva messo a verbale il ritrovamento choc del marito già morto, con la testa fracassata e il petto infilzato da una lama, ipotizzando la mano di ignoti assassini, forse rapinatori e magari pure stranieri e dell’Est europeo. Poteva starci come punto di partenza. E così i detective dell’Arma avevano cominciato a esplorare la pista dell’assalto alla villetta con epilogo tragico. Per cinque giorni i Ris di Parma erano andati alla ricerca delle prove della rapina dentro il caos di quell’abitazione, che sorge nella zona più lussuosa non lontano dall’aeroporto di Malpensa. Niente, neanche un indizio di quei cani rabbiosi che avevano ucciso un uomo invalido e senza possibilità di difendersi. La scena del crimine però suggeriva dell’altro, una pista clamorosa che avrebbe ribaltato quella faticosamente imbastita dalla donna: l’assassino era dentro casa. Una persona amica, di famiglia. Era lì che bisognava cercare, a Somma Lombarda, nel Varesotto, dove viveva la coppia. Coniugi tranquilli e riservati, come li hanno descritti i vicini. Antonino non deambulava a causa di un ictus e a lui pensava Melina, una donna energica e solare che veniva dal Sud ma che lassù s’era ben integrata. Però proprio Melina è finita in mezzo ai sospetti perchè nel suo racconto c’erano troppe cose che non andavano a cominciare dalla rapina. Una ipotesi crollata davanti ai riscontri investigativi che fornivano uno scenario diverso. Le ultime tessere servite a completare il mosaico della Procura di Busto Arsizio erano quelle fornite dall’impianto di videosorveglianza urbana: Melina aveva mentito. Era ancora in casa quando il marito è stato ucciso. Ai carabinieri aveva invece detto d’essere andata a trovare la figlia che vive in un centro vicino. Tutto falso. Una diabolica messinscena che ha retto per cinque lunghi giorni. Le investigazioni scientifiche, però, hanno inchiodato la donna al ruolo di presunta carnefice del marito disabile. L’avrebbe ucciso probabilmente al culmine d’una lite. Accoltellandolo e, poi, colpendolo alla testa con il soprammobile. La lama non è stata ancora trovata, l’elefantino sporco di sangue era invece accanto al cadavere. Il resto dovrà svelarlo lei, Melina Aieta di Cetraro.

leggi l'articolo completo