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Una “famiglia” all’ombra
del narcotraffico

  Anche se spesso, lavorando sottotraccia o defilandosi al momento giusto dopo aver sentito puzza di bruciato, la presunta cosca aspromontana Cua-Ietto-Pipicella di Natile di Careri è riuscita a stare lontana o a tirarsi fuori dalle cosiddette grandi inchieste, il clan, come del resto più volte ribadito e vergato su diverse informative dalle forze dell’ordine e dai magistrati antimafia reggini e in particolar modo dal procuratore aggiunto Nicola Gratteri, ha occupato e occupa, anche per via delle alleanze instaurate nel tempo e per i vincoli di parentela contratti con altre “famiglie” della zona, un posto di rilievo nel “gotha” della ‘ndrangheta. Prima di insediarsi a Natile, popolosa frazione di Careri, l’area in questione era controllata, negli anni Settanta, dal boss Michele Mezzatesta, uomo d’onore legato alla “famiglia” sanluchese dei Nirta. Come del resto fatto da altri gruppi criminali aspromontani, dopo quasi due decenni, dagli anni ‘70 al ‘90, caratterizzati dai sequestri di persona (a giugno del 1990 alcuni presunti esponenti, secondo gli inquirenti, della “famiglia” Ietto avrebbero preso parte al tentativo di sequestro, a Luino (Varese), della giovane Antonella Dellea, conclusosi con l’uccisione da parte dei carabinieri dell’intero commando di sequestratori), anche i clan di Natile di Careri, investendo i guadagni accumulati con le attività illecite, si tuffarono nel traffico di droga, potendo contare su propri insediamenti in Germania e, soprattutto, in Colombia e Australia.

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