Droga, latitanti e omicidi. Affari di ‘ndrangheta consumati sull’asse Cassano-Vibo Valentia grazie a una solida alleanza tra i Forastefano e gli Emanuele. Sono stati messi nero su bianco dal gup distrettuale di Catanzaro, Gabriella Reillo, nelle motivazioni della sentenza che ha chiuso in primo grado il processo figlio dell’operazione “Luce nei boschi” legata alla sanguinaria faida vibonese. A leggere quanto scritto dal giudice c’era, e magari c’è ancora, una consolidata intesa di malavita fra alcune cosche delle Preserre e quelle del Cassanese. La sentenza cristallizza il coinvolgimento diretto del clan Emanuele di Gerocarne, in almeno tre omicidi consumati fra il 2002 e il 2003 nella Sibaritide nell’ambito dello scontro che ha seminato morte e terrore lungo le strade del Cassanese per la faida che ha contrapposto i Forastefano al potente clan dei nomadi che sino ad allora aveva le mani sull’Alto Jonio cosentino come sul resto della Sibaritide. I “compari” vibonesi si sarebbero spostati nella ricca area nord della Calabria per garantire killer “puliti” agli amici ionici in mododa depistare le indagini degli investigatori alla ricerca dei sicari entrati in azione. In cambio i Forastefano avrebbero ospitato a Sibari e in altri angoli della Piana alcuni latitanti vibonesi appartenenti ai clan Emanuele e Maiolo che avevano bisogno di cambiare aria per qualche mese, pur rimanendo in stretto contatto con la “famiglia”. Sempre a leggere le circa trecento pagine delle motivazioni allegate alla sentenza di primo grado del gup Reillo, i Forastefano avrebbero pure partecipato a due omicidi consumati nel Vibonese su ordine degli Emanuele.