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La chiusura mette
in ginocchio
pure l’indotto

Da quando il colosso del cemento ha spento i forni attorno allo stabilimento è calato il silenzio. Non ci sono solo i dipendenti che protestano da tredici giorni in cima al silo, ma c’è tutto un indotto che muore. Camion fermi, aria di smobilitazione, strade isolate, incroci pieni di sterpaglie, rifiuti. Come una grande pozza d’ac - qua che si prosciuga. Prima meta fissa e punto di ristoro, poi zona arida e desertica. Fa quasi paura andarci a una certa ora, soprattutto quando cala il buio e le grandi ombre dello stabilimento si proiettano sulla via principale. Danno l’idea di un luogo spettrale, abbandonato. Eppure fino a poco tempo fa, quando il gigante del cemento era attivo, c’era un via vai di mezzi. Decine di piccole imprese, centinaia di lavoratori e poi il commercio, che a Vibo Marina faceva profitti anche grazie ai camionisti che da ogni parte della Calabria ogni mattina andavano a caricare il cemento. Alcuni rimanevano per tre giorni in zona prima di poter effettuare il carico. Erano tanti tasselli legati alla manutenzione interna, alle pulizie degli uffici, al trasporto del cemento, al soggiorno di molte persone e quindi all’acquisto di prodotti. Un indotto stimato per circa 100mila euro al giorno che movimentava l’economia di Vibo Marina. «Non so ancora se devo licenziare il personale – ha detto l’im - prenditrice che si occupa delle pulizie all’interno dei locali dell’azienda –. Sono con le spalle al muro. Italcementi dava da vivere non solo a me, ma anche ad altre famiglie». E così tutti gli altri titolari di ditte che da decenni hanno rapporti di collaborazione con la società bergamasca. Da un anno a questa parte è come se si fosse spento un faro che illuminava i naviganti verso porti sicuri. Sono circa 400 i lavoratori che, da quando Italcementi ha deciso di chiudere, brancolano nel buio.

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