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Perquisita la casa
perugina della
“sezionatrice”

 La conta dell’orrore. Otto buste di plastica, dodici scatoloni, sette confezioni di candeggina. Stefania Chiurco, 38 anni, aveva maniacalmente preparato tutto. Per nascondere, nella calce e il borotalco, il corpo sezionato del padre, Riccardo, 72 anni, insegnante in pensione. E per cancellare tutto il sangue sparso per la casa durante l’opera di raccapricciante “macelleria”. Un piano perfetto, partorito da una mente malata. Dalle mente d’una donna afflitta dall’obesità incipiente, incattivita dagli insuccessi universitari, turbata dalla morte prematura della madre. Una donna rinchiusa in carcere dal gennaio scorso, rimasta prigioniera di oscuri pensieri e assurde visioni che le impediscono di distinguere il vero dal falso, il bene dal male. Stefania non ha mai confessato d’aver prima stordito con un tranquillante e poi legato ad una sedia e massacrato lo sventurato genitore. La verità che s’è costruita racconta d’altro e sembra più potente dei fatti, dei rilievi scientifici, dell’autopsia. È per questo che il procuratore Franco Giacomantonio e il pm Silvia Fonte Basso, hanno ordinato una nuova perquisizione nella casa di Perugia dove la trentottenne s’è recata pochi giorni dopo l’assassinio del padre. L’appartamento è nel centro storico del capoluogo umbro e doveva essere, secondo i genitori, la base di Stefania iscritta alla Facoltà di Medicina. E invece non lo è stata. Perché l’avventura universitaria s’è risolta in un fallimento ed ha finito con il far precipitare la studentessa in uno stato di prostrazione e frustazione. Uno stato divenuto con il trascorrere del tempo un vero e proprio disagio psichico tanto da far finire la Chiurco ricoverata nel Centro di igiene mentale di Perugia. È accaduto nel 2006, quando per venti giorni la donna è stata oggetto di cure psichiatriche dopo una furibonda lite avuta con i genitori. La diagnosi degli “specialisti” fu nell’occasione impietosa: schizofrenia. Dopo un’appropriata terapia tornò tuttavia in famiglia senza più dare, almeno ufficialmente, segni evidenti di squilibrio. Segni che, però, nel dicembre dello scorso anno potrebbero essere improvvisamente riemersi dai sinistri meandri della mente. I vicini di casa, infatti, dopo la scoperta del cadavere di Riccardo Chiurco, hanno raccontato ai carabinieri di aver ripetutamente sentito urla e imprecazioni provenire dalla casa degli orrori, a causa di liti scoppiate tra il settanduenne pensionato e la figlia. Stefania, però, di fronte ai magistrati, ha negato l’esistenza di tensioni. Anzi, ha sempre parlato della grande considerazione che il padre aveva per lei. «Per questo – ha detto – ne ho sezionato il corpo che non poteva restare tagliato a metà, dentro due buste, perché sarebbe stato mangiato dai cani randagi. Non potevo lasciarlo la, è sempre mio padre». La donna per compiere la sua macabra opera ha utilizzato un’accetta e una mazza da cava con una estremità perfettamente affilata. Due “strumenti” ritrovati dagli investigatori del colonnello Francesco Ferace e che la sospettata ha formalmente riconosciuto. L’accetta l’aveva comprata proprio per l’occasione, mentre la mazza era già in casa. Ha utilizzato gli attrezzi con fredda determinazione, allestendo un tavolo da macellazione nel corridoio d’ingresso e, poi, ha ripulito tutto. Usando litri e litri di candeggina. Tutto quel sangue le dava fastidio. «La casa – ha spiegato con aria pacata – dev’essere sempre in ordine». Il professore Chiurco non poteva che finire in quel modo «perché – ha chiarito la trentottenne – se non l’avessi perfettamente smembrato e diviso in piccole porzioni non sarebbe entrato nelle scatole che mi ero procurata». La calce e il borotalco servivano invece ad attutire gli effetti della decomposizione. E quando, dopo l’arresto, il tenente colonnello Vincenzo Franzese, comandante del Reparto operativo, le ha chiesto come fosse deceduto il genitore, ha risposto: «Siccome stava male, aveva vari acciacchi, ha chiamato qualcuno per farsi uccidere e poi lasciarsi abbandonare vicino casa perché io me ne occupassi». Stefania aveva programmato di portare le scatole contenenti i resti in una discarica per non inciampare nel servizio di raccolta differenziata attivo nella cittadina ionica. Prima, però, è andata a Perugia. Per mettere a posto alcune cose. Nell’abitazione di famiglia gl’investigatori, nei mesi scorsi, hanno trovato un appunto relativo ai movimenti di denaro che la donna intendeva fare, trasferendo delle somme da un conto postale. Nulla di più. Ora la nuova perquisizione. Cosa cercano i magistrati? Mistero. La parricida, nel frattempo, è stata trasferita in un carcere del Settentrione. I suoi avvocati, Roberto Laghi e Antonio Carelli Basile reclamano l’esecuzione di una perizia psichiatrica. Che, però, non è ancora stata disposta.

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