''E' stato il maxiprocesso al gotha della 'ndrangheta''. Ed è stato anche il processo di una donna contro la sua famiglia. Dopo due anni di udienze, si é chiuso il 4 maggio con 40 condanne per 521 anni di carcere (e 21 assoluzioni) il dibattimento contro il clan Pesce di Rosarno.
E ad accusarlo c'era soprattutto Giusy Pesce, la più importante collaboratrice di giustizia di 'ndrangheta di questo momento. ''Per la prima volta, una donna di 'ndrangheta ha considerato lo Stato, da sempre nemico, come un'alternativa per sé e per i figli. Un messaggio rivoluzionario che per questo spaventa le cosche", commenta con "A Ciascuno Il Suo", di Radio 24, Alessandra Cerreti, il pm della Dda di Reggio Calabria che ha raccolto le dichiarazioni di Giusy Pesce. "Credo che anche questa sentenza possa far maturare altre collaborazioni", dice Alessandra Cerreri, ripercorrendo "le difficoltà, le tensioni e il clima di aggressione" degli ultimi due anni. Anche per Giusy Pesce la sua famiglia aveva decretato la morte perché aveva tradito il marito e poi perché aveva collaborato. "Più donne ci hanno raccontato di questa regola ferrea dell'onore. Io all'inizio - dice Alessandra Cerreti a Raffaella Calandra - ho avuto una reazione di sconcerto, ho visto un'accettazione acritica di questa regola: lei era rassegnata ad essere uccisa perché si era macchiata di una colpa indelebile. Il primo passo è far capire a loro, a queste donne che possono avere scelte libere, anche nelle relazioni, senza rischiare di essere uccise", riflette il pm, che ripercorre la vita di molte ragazze delle terre di 'ndrangheta, dalla 'fuitinà all'obbligo di concedersi ai boss.