Il sole è ormai tramontato quando la presidente della Corte d’assise, Antonia Gallo, legge il dispositivo della sentenza. Il magistrato, in un’aula affollatissima, snocciola con voce ferma nomi e numeri. Diciannove sono gli imputati condannati, sei quelli assolti. La parola ergastolo rimbomba cinque volte in un assordante e irreale silenzio. La massima pena prevista dal nostro ordinamento viene inflitta a Nicola Acri, di Rossano; Franco Abbruzzese, detto “u pirolu” e Franco Abbruzzese, inteso come “dentuzzo”, di Cassano; Ciro Nigro e Damiano Pepe di Corigliano. Scampano al cacere a vita, ottenendo il riconoscimento delle attenuanti generiche e l’esclusione dell’aggravante mafiosa, Celestino Abbruzzese, settantenne “patriarca” dell’omonima famiglia, condannato a 24 anni e Fiore Abbruzzese, Fioravante Abbruzzese, Armando Abbruzzese, Giovanni Abbruzzese, Mario Bevilacqua e Rocco Antonio Donadio tutti cassanesi e condannati a 25 anni. Incassa 28 anni di carcere Maurizio Barilari, di Corigliano per il quale il pm aveva invocato la detenzione a vita. Lasciano invece la scena giudiziaria assolti da ogni accusa Antonio Abbruzzese (classe 75), Luigi Abbruzzese, Domenico Madio e Antonio Abbruzzese (classe ‘70) tutti di Cassano; e Fioravante Bevilacqua e Domenico Bruzzese di Cosenza.
LA COSCA E IL QUARTIERE. Il maxiprocesso “Timpone Rosso” prende il nome dal quartiere di Cassano dove risiedono i maggiori esponenti del cosiddetto “clan degli zingari”. La loro è una vera e propria enclave, controllata a vista da “vedette” e concentrata intorno a un blocco di palazzine in cui è collocato il quartiere generale del gruppo. Impossibile per gl’investigatori accedervi sfruttando il fattore sorpresa: chiunque s’avvicini, infatti, viene avvistato per tempo. Le forze dell’ordine non sono mai riuscite, per questa ragione, a collocare negli appartamenti in uso ai criminali d’origine nomade microspie e microtelecamere. Nessuno può aver accesso agli edifici senza essere “spiato” a distanza da occhi attenti di uomini e donne. Il gruppo delinquenziale, fondato da persone legate fra loro da rapporti di parentela o affinità, costituito da componenti riconducibili alle comunità nomadi di Cosenza e Cassano, è stato disarticolato nel luglio del 2009. L’inchiesta approdata a processo era frutto d’un lungo lavoro di analisi e d’investigazioni portate avanti con estrema difficoltà, penetrando in un mondo delinquenziale in cui i capi e gregari usano un linguaggio gergale e portano spesso gli stessi cognomi. Determinanti si sono rivelate le dichiarazioni di un collaboratore di giustizia, Pasquale Perciaccante, “fuciliere” della consorteria, che con le sue confessioni ha consentito agli inquirenti di guardare finalmente all’interno del sodalizio altrimenti impenetrabile e di decriptarne costumi, sistemi di comunicazione, simbolismi, riti e gerarchie. La consorteria – questa la tesi sostenuta dalla Dda di Catanzaro – avrebbe utilizzato lo stragismo per imporre il proprio predominio sul territorio, eliminando chiunque rappresentasse un ostacolo. Non solo: per scongiurare pentimenti che avrebbero minato la solidità del clan, avrebbe fatto persino ricorso alle vendette trasversali, assassinando, nel maggio del 2001, Giorgio Cimino, padre dei pentiti Antonio e Giovanni Cimino.
GLI OMICIDI. Il pm Vincenzo Luberto e il procuratore distrettuale Antonio Vincenzo Lombardo hanno grazie al lavoro dei carabinieri individuato dinamiche, presunti esecutori e mandanti di numerosi omicidi. Il primo agguato risale al 6 gennaio del 1999 quando all’ingresso di Lauropoli vennero spediti all’altro mondo Giuseppe Cristaldi, “ uomo di rispetto” legato alle vecchie gerarchie della ‘ndrangheta, e Biagio Nucerito, suo fidato autista. Poi, toccò a Gianfranco Iannuzzi, scomparso per lupara bianca a Cosenza il 16 aprile del 2001 e ritrovato cadavere molti anni dopo grazie alle confessioni del pentito Pasquale Perciaccante. Di seguito scattò l’eliminazione – come già accennato – di Giorgio Cimino, padre di due collaboratori di giustizia e, quindi, vittima di una vendetta trasversale compiuta a Corigliano il 24 maggio 2001. Il 25 marzo del 2002 vennero invece trucidati, a Corigliano, Enzo Fabbricatore, “reggente” della cosca locale, e Vincenzo Campana, suo autista e sodale. Poco più d’un mese dopo, il 28 aprile, finì sotto terra, a Cassano, Gaetano Guzzo, piccolo imprenditore. L’anno successivo, stessa tragica fine spettò, prima ad Antonio Acquesta che scomparve per lupara bianca il 27 aprile del 2003 e, poi, a Sergio Benedetto e Fioravante Madio, falciati dai kalashnikov il 16 giugno sempre a Cassano. Madio morì per sbaglio, vittima del “fuoco amico”. L’uomo faceva parte del “commando” incaricato di far fuori Benedetto e il cugino, Rocco Milito, che invece si salvò miracolosamente. La vicenda era già stata oggetto di approfondimento nel maxiprocesso “Lauro”.
L’ASSE CASSANO-COSENZA. La collaborazione di Perciaccante, detto “Cataruozzolo”, aveva consentito –come detto –di trovare i resti del corpo di Gianfranco Iannuzzi che erano sepolti nelle campagne cassanesi. All’omicidio di Iannuzzi gli inquirenti del Ros avevano riservato, durante le indagini, molta attenzione: l’uomo, infatti, venne eliminato perchè c’era il pericolo che potesse pentirsi dopo la scelta collaborativa fatta dall’ex capo della criminalità nomade cosentina, Franco Bevilacqua, a cui Iannuzzi era molto legato e con il quale, nel novembre del 2000, aveva compiuto una strage nel quartiere di via Popilia a Cosenza. E proprio sul binomio Cosenza- Cassano si sono sviluppate –a parere della magistratura antimafia – le fortune della cosca dei nomadi. Nelle due città, infatti, si sono rafforzati nel tempo gl’interessi illegali e il clan è passato dalla gestione di attività illecite marginali, alle estorsioni per poi posizionarsi stabilmente nel narcotraffico. La graduale crescita della consorteria è cominciata dopo le operazioni «Garden» e « Galassia» che, tra il 1994 e il ‘95, travolsero nel Cosentino i gruppi storici della mafia locale. Le successive inchieste anti ‘ndrangheta indebolirono infine ulteriormente il “locale” di Corigliano spianando così la strada all’egemonia dei cassanesi.
I PENTITI. Con la sentenza emessa ieri sera sono stati pure condannati i pentiti Carmine Alfano e Vincenzo Curato, rispettivamente a 10 e 14 anni di reclusione.
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