di Arcangelo Badolati
La “sezionatrice”. Quel pacco ingombrante posto in cima al materiale ammassato all’ingresso di casa provoca uno strano rumore. È come se vi rotolasse dentro qualcosa. Il carabiniere s’infila i guanti di lattice e lo apre lentamente. Dopo aver liberato le due estremità tenute insieme dallo scotch da imballaggio, affonda lo sguardo all’interno e si ritrae istintivamente. È terrorizzato. Lo sconcerto gli si disegna sul volto con una smorfia d’angoscia e di disgusto. La testa di Riccardo Chiurco sembra l’estremità d’un manichino teatrale. I capelli impastati di polvere di calce, le palpebre semiaperte, la pelle del viso, già vinta dal pallore cadaverico, coperta da uno strato leggero di borotalco. L’odore nauseabondo sprigionato dal “trofeo” di morte si diffonde per tutto il corridoio. Al dolciastro del talco s’aggiunge il tanfo della prolungata decomposizione. È un incubo. Sembra una scena immaginata da Edgar Allan Poe in uno dei suoi tanti racconti d’orrore. La vittima è un insegnante in pensione di settantadue anni. Vedovo, viveva con la figlia, Stefania, 38 anni, studentessa universitaria fuoricorso, in una confortevole abitazione di Trebisacce, centro rivierasco dell’area ionica cosentina. Del “professore” Riccardo nessuno aveva notizie da quasi due settimane. Lui, sempre così metodico, non si vedeva più in giro. Non comprava il giornale, non passeggiava sul lungomare. Niente. È stato il fratello, che vive ad alcune decine di chilometri di distanza, a San Demetrio Corone, ad insospettirsi. Chiamava per avere notizie del congiunto e la nipote, Stefania, s’inventava sempre una buona scusa per non passarglielo alla cornetta. Così, ieri, è andato dai carabinieri per chiedere sostegno e capire se gli fosse accaduto qualcosa. All’arrivo del familiare e degli investigatori, Stefania, che è iscritta alla facoltà di Medicina di Perugia, ha cominciato a farfugliare di un «mandato di perquisizione» necessario per consentire l’accesso in casa ai carabinieri. Un atteggiamento assolutamente inspiegabile per lo zio che, invece, ha invitato i carabinieri del colonnello Francesco Ferace a fare irruzione. La donna, mostrando freddezza e lucidità, ha tentato di sviare gli accertamenti lasciando intendere che il padre si fosse allontanato. Durante la conversazione, tuttavia, il suo gelido sguardo si allungava spesso in direzione degli scatoloni da imballaggio appoggiati al muro, inmodo ordinato, vicino alla porta d’ingresso. “Cosa c’è in quelle scatole?” le ha chiesto istintivamente un militare. La risposta ottenuta di rimando è stata evasiva: “Roba di casa”. Incuriosito, il carabiniere s’è perciò avvicinato alla piccola catasta venendo subito investito da un odore singolarissimo. Un miscuglio nauseabondo, apparentemente simile a quello provocato da sostanze organiche avariate su cui qualcuno aveva però spruzzato del deodorante per ridare un fittizio riequilibrio olfattivo all’ambiente. Troppo per essere normale. Inusuale per non meritare una accurata verifica. Gl’investigatori hanno perciò deciso di dare un’occhiata. Ed è venuto fuori un pezzo d’inferno. In otto diversi contenitori erano custodite le parti del corpo dell’insegnante sparito da giorni. La testa, le braccia, le gambe, i piedi, le mani erano stati sezionati con chirurgica precisione e riposti, impastati di calce e borotalco, dentro le pareti di cartone. Le due sostanze servivano a contenere i miasmi provocati dal processo di decomposizione che lentamente s’impadroniva dei tessuti. Gli organi interni, in genere più celeri nelle dinamiche di liquefazione, erano stati invece in gran parte asportati. Forse sepolti da qualche parte o, più semplicemente, affidati ai cassonetti di raccolta dei rifiuti solidi urbani. Il resto, nella casa, era perfettamente in ordine. La macabra “sezionatrice” aspettava solo di liberarsi degli “scatoloni” per cancellare ogni traccia del delitto. Il resto era già a posto. Nessuna traccia apparente di sangue, né segni di colluttazioni o violenze in giro per le stanze. Nelle prossime ore, con il “luminol” gli specialisti del Ris potranno far riemergere tutte le macchie ematiche rese invisibili dalla sinistra “pulizia” fatta dall’omicida. Il medico legale, Walter Caruso, ha stabilito come risalente a quasi un mese addietro il decesso di Riccardo Chiusco. La figlia, Stefania, dopo un lungo interrogatorio sostenuto davanti al tenente colonnello Vincenzo Franzese e al pm Silvia Fonte Basso, è stata posta in stato di fermo. Per il procuratore capo, Franco Giacomantonio, l’assassino non può che essere lei. I rapporti con il padre, secondo quanto raccontano i vicini, non erano buoni. Da tempo, le liti si susseguivano. Drammaticamente. La donna, parlando con gli investigatori, avrebbe fatto solo parziali ammissioni. È rimasta lucida, senza mostrare segni di pentimento. Come, appunto, un personaggio di Poe.
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